martedì 12 novembre 2013

SM 3605 -- La battaglia di Scanzano


La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2013
  

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Scanzano chi ? Sono passati dieci anni da quando questo quasi sconosciuto, e poi presto dimenticato, paesino della Basilicata è stato al centro di una battaglia ecologica che allora ebbe un certo rilievo. La storia è presto raccontata. In Italia da decenni esistono alcune decine di migliaia di tonnellate di sostanze radioattive, ad alta e media radioattività, che sono il residuo di una sventurata stagione nucleare, consistita nella costruzione di alcuni reattori, quattro più grossi e altri minori, chiusi dopo breve tempo uno dopo l’altro, e in avventate attività di trattamento di barre nucleari importate dagli Stati Uniti e che ci sono rimaste in casa col loro carico di plutonio, torio e uranio. Tali sostanze radioattive, comunemente chiamate ”scorie”, continuano ad emettere radioattività e calore per secoli e millenni e devono (dovrebbero) essere sistemate accuratamente isolate dalle acque e dagli esseri viventi.

giovedì 31 ottobre 2013

SM 1790 -- Una piccola dimenticata battaglia contro i campi elettromagnetici -- 1994

"Prefazione" a: L. Carra, "Onde sospette. Elettricità e salute", Roma, Editori Riuniti, 1994, p. IX-XVII 

Giorgio Nebbia

Leggendo il libro ciascuno si farà una sua idea se l'esposizione ai campi magnetici generati dalle linee elettriche ad alta tensione è pericolosa o no. L'autore del libro riporta i dati sperimentali che inducono a considerare tale esposizione pericolosa e le obiezioni di coloro che non vi attribuiscono eccessiva importanza o considerano tali pericoli irrilevanti.

Io sono fra coloro che ritengono che i dati disponibili giustifichino norme più rigorose delle attuali nella costruzione e localizzazione delle reti per il traspor­to dell'elettricità ad alto voltaggio, in modo da diminuire l'esposizione della  popolazione ai campi elettromagnetici che tali reti di sicuro generano.

domenica 29 settembre 2013

SM 2428 -- L'interfaccia fra mare e terra -- 2000

In: Gianni Palumbo e Danilo Selvaggi (a cura di), "Le coste italiane", Roma, LIPU, 2003, p. 188-189

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
  

Nell’analisi dell’ambiente marino uno degli aspetti di maggiore importanza è rappresentato da quello che avviene in quella delicata e mutevole interfaccia dove il mare incontra la terra. Un problema che riveste particolare importanza nel nostro paese in cui tale “interfaccia” si estende per ottomila chilometri.

Gli eventi che si verificano nell’interfaccia sono di molteplice natura: innanzitutto l’interfaccia è rappresentata da rocce o zone sabbiose, mutevoli nel tempo, anche nel corso di un anno, ad opera del vento e del moto ondoso.

lunedì 9 settembre 2013

SM 3588 -- Il Settantatre -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, giovedì 5 settembre 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel 1973 il mondo era diviso in tre parti, come aveva scritto nel 1952 il geografo francese Alfred Sauvy (1898-1990): il primo mondo era quello capitalistico, comprendente gli Stati Uniti e i paesi amici e satelliti occidentali, dal Canada all’Inghilterra, alla stessa Italia; la Spagna era ancora sotto il regime fascista di Franco, la Grecia era ancora governata dai “colonnelli” di destra. Il secondo mondo era rappresentato dall’Unione Sovietica e dai paesi satelliti. C’era poi un “terzo mondo” molto variegato, in genere di paesi arretrati economicamente, molti dei quali si erano appena scrollato di dosso il dominio coloniale di Francia, Spagna, Inghilterra; la Cina stava vivendo la rivoluzione culturale, una contraddittoria ondata di cambiamento, una via comunista indipendente dall’Unione Sovietica.

mercoledì 28 agosto 2013

SM 3585 -- Crescita e declino degli studi sul futuro -- 2013


La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 27 agosto 2013 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Forse le attuali crisi, economica e ambientale, possono essere entrambe curate da una rinascita della cultura e degli studi sul futuro. Ogni società, ogni persona pensa al futuro: le aziende si interrogano su quali merci o servizi è opportuno produrre per soddisfare futuri reali bisogni umani; i governi e le singole persone si chiedono quali effetti ambientali il comportamento proprio o collettivo avranno sulle acque e sull’aria del futuro. Le radici di una scienza del futuro vanno cercate nei moltissimi scritti del giornalista H.G.Wells (1866-1946), tutti ispirati, nella prima metà del Novecento, alle conseguenze delle scoperte scientifiche che venivano a sua conoscenza.

La crisi economica degli anni trenta spinse i governi a interrogarsi sul futuro e a predisporre, nei paesi capitalistici e nell’Unione Sovietica, dei ”piani” per orientare le produzioni agricole e industriali in modo da uscire dalla povertà; furono anni segnati da continue innovazioni tecnico scientifiche che ebbero una accelerazione durante la II guerra mondiale (1939-1945): incredibili progressi nei veicoli terrestri e aerei, nei calcolatori, nella chimica, si pensi alla scoperta della penicillina, dei sulfamidici e del DDT, fino alla scoperta della possibilità di estrarre grandissime quantità di energia dal nucleo atomico per nuove devastanti armi o per azionare navi e macchine.

Queste scoperte costrinsero i governi e gli studiosi a interrogarsi sulle conseguenze che tali scoperte avrebbero avuto. Il governo degli Stati Uniti commissionò uno studio sui futuri fabbisogni di energia dell’America e come le varie fonti di energia avrebbero potuto soddisfarli. Già nei primi anni cinquanta negli Stati Uniti apparvero le prime previsioni sull’aumento della popolazione, sull’approvvigionamento dei minerali, dei prodotti agricoli, dei metalli; furono messi a punto dei nuovi metodi “scientifici” per tali previsioni; nacque, insomma, una “scienza del futuro”.

Le previsioni riguardavano gli aspetti tecnico-scientifici ed ecologici ma anche quelli sociali; a Parigi il filosofo Bertrand de Jouvenel (1903-1987) fondò una associazione col nome “Futuribles”, per lo studio dei futuri possibili; l’imprenditore italiano Franco Ferraro (1908-1974) creò una simile associazione “Futuribili” in Italia; a Roma nacque un centro di previsioni diretto dalla sociologa Eleonora Masini. Nel corso degli anni sessanta del Novecento furono pubblicati almeno tre libri col titolo “2000”, scritti dagli americani Herman Kahn (1922-1983), Daniel Bell (1919-2011), dall’austriaco Robert Jungk (1913-1994) e dal norvegese Johan Galtung; una multinazionale di studiosi.

Ben presto fu possibile riconoscere varie “scuole”, quella degli ottimisti (la tecnologia ci salverà, supererà la scarsità di risorse naturali e gli inquinamenti), e i pessimisti (la crescita della popolazione, dei consumi e degli inquinamenti possono compromettere le condizioni di vita future). Questa seconda posizione fu espressa nel più celebre dei libri sul futuro, “I limiti alla crescita”, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, un circolo di intellettuali fondato dall’italiano Aurelio Peccei (1908-1984).

Il culmine dell’interesse e del dibattito della scienza del futuro si ebbe nel 1973 con la conferenza internazionale della Federazione Mondiale di Studi sul Futuro (WFSF), presieduta da Eleonora Masini, a Frascati (i vari volumi di atti sono purtroppo introvabili). Si avvicinavano i tuoni di una nuova crisi: l’aumento del prezzo del petrolio, i pericoli di guerra atomica, le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera, la fragilità delle strutture industriali, orientate al profitto a breve termine, appariva con una serie di incidenti, da quello giapponese di Minamata, a quelli italiani di Seveso e Manfredonia, a quello americano di Times Beach, alla catastrofe nucleare di Harrisburg, eccetera. I ruggenti anni ottanta e novanta del Novecento, con l’illusione di una nuova ondata di consumi e di merci e di apparente felicità, hanno spazzato via la scienza del futuro, come anche la originale genuina carica “rivoluzionaria” dell’ecologia.

Di futuro, naturalmente, si è parlato, anzi sempre di più e fin troppo, con conferenze, riviste, talvolta come fantascienza, futurologia, addirittura come magia, ma per lo più per cercare una soluzione a problemi immediati; le previsioni sono state fatte a breve termine sotto la spinta di invenzioni e modificazioni così veloci da non lasciare il tempo per comprenderle: la nascita di nuovi giganti industriali, le rivolte nei paesi emergenti, la crescente fragilità dei territori dovute all’inquinamento. I paesi industriali sono incapaci di fare credibili previsioni dei fabbisogni energetici, di prendere decisioni per arginare i prevedibili, questi si, effetti futuri ambientali degli inquinamenti e delle scelte merceologiche. Sembra che le imprese non sappiano fare scelte produttive che riducano la disoccupazione e sembra che i soldi siano l’unico indicatore a cui riferire le spesso miopi previsioni dei governi.

Ne viene un senso di scoramento, soprattutto nelle generazioni più giovani che sembrano avere perso la speranza. Su, studiosi, ingegneri e sociologi, chimici e filosofi, provate a ricominciare a interrogarvi sul futuro. Su; governanti, provate a immaginare come vorreste il vostro paese e i vostri cittadini e a fare politica a questo fine.


venerdì 16 agosto 2013

SM 3399 -- Orgoglio -- 2011

La Gazzetta del Mezzogiorno, mercoledì 14 dicembre 2011

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Sono rimasto colpito ascoltando uno degli operai dei cantieri navali di Sestri Ponente, in Liguria, di quelli che sono minacciati dal licenziamento: il suo dolore non era soltanto per il mancato guadagno ma anche per la ferita al suo “orgoglio”, ha usato proprio questa parola, di operaio capace di fabbricare cose importanti, come le navi. “Orgoglio” del proprio lavoro, non soltanto condanna biblica alla fatica, non soltanto fonte di guadagno per mantenere una famiglia, ma fonte di soddisfazione, constatazione che col lavoro si fa una cosa buona e utile e bella.

Un tema che ricorre talvolta nelle opere letterarie e anche nei film, soprattutto americani; mi è venuto in mente il film “Pretty woman” (1990), nel quale una prostituta, interpretata da Julia Roberts, fa innamorare un grande finanziere di successo che si vanta di arricchirsi comprando imprese in difficoltà e svendendole pezzi e licenziando i lavoratori. Ad un certo punto la ragazza chiede al finanziere: “Ma tu non hai mai costruito niente ?”. La risposta è “no”. Alla fine, per amore, il finanziere compra un cantiere navale in crisi non per svenderlo, facendo soldi, ma per costruire anche lui ”molte belle e grandi navi”.

lunedì 5 agosto 2013

SM 3579 -- Hiroshima e Nagasaki: la lezione dimenticata -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 6 agosto 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo dell’esplosione, proprio il 6 agosto del 1945, sessantotto anni fa, della prima bomba atomica americana sulla città giapponese di Hiroshima, seguita, tre giorni dopo, da quella di una simile bomba atomica sull’altra città giapponese di Nagasaki: con duecentomila morti finiva la seconda guerra mondiale (1939-1945), e cominciava una nuova era, quella atomica, di terrore e di sospetti, eventi che hanno cambiato il mondo e che occorre non dimenticare.

lunedì 29 luglio 2013

SM 3501 -- Il costo ambientale delle merci e dei servizi

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 30 ottobre 2012

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Quando acquistate una automobile fate certamente attenzione al prezzo, alle caratteristiche, alla ricchezza di accessori, al consumo di benzina o gasolio, al tasso di interesse che viene praticato per l’acquisto a rate, eccetera. Non so se prestate altrettanta attenzione al fatto che l’uso di questa macchina è inevitabilmente associato al peggioramento del clima, quell’insieme di fenomeni che provocano estati torride e improvvisi acquazzoni con conseguenti alluvioni, che provocano tempeste ai tropici e fusione dei ghiacci delle montagne e delle zone polari.

Tutti eventi che sono associati alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera; fra i gas responsabili di questo scombussolamento degli equilibri ecologici della Terra una grande responsabilità ha l’anidride carbonica CO2, la sostanza che si forma come risultato finale di tutte le combustioni associate alla produzione di elettricità o di acciaio o di plastica, eccetera, ma anche dalla combustione degli alimenti “consumati” dagli esseri umani e dagli animali. Per restare alle automobili, molti lettori avranno notato che, da alcuni anni, nella pubblicità delle varie marche viene indicato il consumo di benzina per 100 chilometri, una caratteristica importante perché la benzina costa dei soldi, ma viene indicata anche, sia pure in caratteri piccolissimi e quasi illeggibili, la quantità di CO2 che viene emessa per ogni chilometro, percorso.

mercoledì 24 luglio 2013

SM 3576 -- Petrolio -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 23 luglio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Per la maggior parte di noi l’interesse per “il petrolio” non va al di là del fastidio per l’aumento del prezzo della benzina o del gasolio al distributore, che peraltro è il punto di arrivo di un lungo cammino di materie e di lavoro, cominciato nelle viscere della Terra. Il petrolio, la lontana materia prima dei carburanti, viene portato in superficie mediante pozzi posti su piattaforme collocate in mezzo ai mari, o nei deserti aridi, o in quelli ghiacciati, o in mezzo alle paludi. Il petrolio come tale non serve a niente e deve essere trasportato, mediante navi cisterna o oleodotti, dai pozzi a speciali impianti, le raffinerie, in cui vengono separate le varie principali frazioni: le benzine, le più pregiate, il gasolio, gli oli combustibili. Il rendimento delle varie frazioni commerciali dipende dalle caratteristiche merceologiche dei petroli greggi, variabili da un posto all’altro, e dalle tecnologie di raffinazione. Le varie frazioni sono poi trasportate con navi o treni o camion o condotte, fino ai depositi e ai distributori e ai consumatori finali.

martedì 2 luglio 2013

SM 3570 -- Prevedere e prevenire -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 2 luglio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Le numerose e continue crisi ambientali ed economiche non sono colpa di una divinità ostile, ma dell’imprevidenza di chi prende le decisioni di fare o non fare una certa opera o una certa scelta produttiva senza tenere conto delle possibili conseguenze. Gli esempi potrebbero riempire interi volumi e qualche opera è stata anche scritta su questo argomento: Nel 1971 il libro “La tecnologia imprevidente” (“The careless technology”, di T. Farvar e John Milton) conteneva una lunga serie di esempi di interventi sbagliati, come la diga di Assuan che ha provocato l’arretramento della costa nel delta del Nilo; alcuni anni dopo, nel 1997, un libro dell’americano Edward Tenner spiega “Perché le cose ci ricadono addosso”  (”Why things bite back”), con un elenco di casi in cui le scelte economiche si sono rivelate sbagliate.

giovedì 11 aprile 2013

A 50 anni dall'enciclica 'Pacem in terris'

La Gazzetta del Mezzogiorno, giovedì 11 aprile 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’enciclica “Pacem in terris”, appariva cinquant’anni fa, in un periodo di grandi tensioni internazionali. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, si confrontavano duramente in una gara rivolta ad avvertire il possibile avversario della propria potenza militare, soprattutto nucleare. Dopo l’esplosione sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, delle prime due bombe atomiche, bombe “piccole”, con una potenza distruttiva equivalente a quella di “appena” 15.000 tonnellate di tritolo, peraltro sufficienti a uccidere centomila persone, le due superpotenze avevano costruito bombe nucleari sempre più potenti; ormai non si trattava più soltanto delle bombe a fissione a uranio o plutonio, ma di bombe H a fusione, con potenze distruttive equivalenti a quelle di milioni di tonnellate di tritolo, o megaton, come si diceva allora.

mercoledì 27 marzo 2013

SM 2998 -- Gabinetti per lo sviluppo

Inquinamento, 50, (109), p. 5 (novembre 2008)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Se mi chiedessero quale è il più importante obiettivo a cui dedicare ricerca e innovazione direi: dare a tutti nel mondo un gabinetto. Sembra un argomento poco elegante da trattare, ma da questo “oggetto” dipende la liberazione di miliardi di persone dalle malattie e da condizioni indecenti di vita.

Nei paesi industrializzati il gabinetto domestico è, in genere, un insieme di attrezzature raffinate, ma la situazione è molto diversa nella maggior parte dei paesi del mondo; eppure il ruolo del gabinetto è lo stesso per qualsiasi essere umano; una persona in media ha bisogno delle funzioni del gabinetto 2500 volte all’anno e tali funzioni assorbono tre anni della propria vita (per le donne di più). Una persona produce, in media, 500 litri di urina e 50 litri di feci ogni anno; se può utilizzare un gabinetto ad acqua corrente produce ogni anno da 10 a 20 mila litri di acqua contaminata, contenente anche carta e altri rifiuti; se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti è trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico, di diffusione di virus, eccetera.

martedì 26 marzo 2013

SM 3533 -- Speranze ecologiche -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 19 marzo 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Chi si occupa di ecologia ha motivo di rallegrarsi perché il nuovo Papa ha assunto il nome di Francesco, il santo che il Papa Giovanni Paolo II nel 1979 ha proclamato “patrono dell’ecologia”, perché “ha onorato la natura come un dono meraviglioso dato da Dio al genere umano”. L’idea di considerare San Francesco come anticipatore dell’attenzione ambientale che sarebbe venuta sette secoli dopo, risale ad uno storico americano del Medioevo, Lynn White (1907-1987). In un articolo del 1967 sulle radici culturali dell’ecologia White ricordò che nella tradizione giudaico.cristiana “l’uomo”, secondo il primo racconto della Genesi, viene invitato a “dominare su tutti gli esseri viventi” e che il cammino delle società occidentali si è svolto in un continuo dominio del mondo della natura; dalla caccia, allo sfruttamento delle acque e delle piante e delle foreste, per motivi puramente economici, spesso giustificato basandosi proprio sull’invito divino della Genesi.

venerdì 8 marzo 2013

SM 3313 -- Incidente di Fukushima

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 19 aprile 2011; Economia e Commercio (Bari), [IV], 21, 5-6 (2011)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Dopo gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi di Fukushima c’è stato un po’ di ripensamento nei programmi nucleari del governo italiano; lo stesso governo si è affrettato a emanare un decreto che rimanda di un anno le procedure di localizzazione delle possibili centrali nucleari (ma non le procedure di localizzazione dei depositi delle scorie radioattive); vari paesi hanno deciso di rivedere le condizioni di sicurezza delle centrali esistenti, le quali (sono quasi 450 nel mondo) continuano a frantumare nuclei di uranio e di plutonio e a generare ogni anno tonnellate di rifiuti radioattivi.

Dopo Fukushima sono cambiate molte cose, oltre che di carattere ambientale, di carattere economico. Negli ultimi anni c’era stata una lenta ripresa, in vari paesi del mondo, dei programmi di costruzione delle centrali nucleari, pubblicizzate come la fonte di elettricità che evita l’effetto serra, del tutto sicura, e questo fermento aveva messo in moto l’unica cosa che conta per il potere finanziario, i soldi, da investire nell’industria meccanico-nucleare che fabbrica le centrali nucleari e nell’industria delle costruzioni. La costruzione di una grossa centrale nucleare richiede, a parte i materiali nucleari veri e propri, circa un milione di tonnellate di cemento e acciaio, e poi nuove strade e porti e infrastrutture. Poi richiede complesse procedure burocratiche che a loro volta richiedono studi di sicurezza, commissioni tecniche, appalti, tutti costosi.

domenica 17 febbraio 2013

SM 3525 -- Costo energetico e sprechi degli alimenti -- 2013

La Gazzetta del Mezzogiorno, mercoledì 13 febbraio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Uno degli esercizi a cui si dedicano sociologi e opinionisti riguarda la possibilità di sfamare in futuro gli abitanti della Terra, oggi poco più di sette miliardi, in lenta ma continua crescita almeno nei prossimi decenni; una popolazione mondiale che si prevede raggiunga i nove miliardi di persone nel 2050. L’instancabile Lester Brown, presidente dell’Istituto americano per una politica della Terra, una specie di controllore ecologico del mondo, ha di recente pubblicato un nuovo libro, tradotto in italiano dalle Edizioni Ambiente, proprio intitolato: “Nove miliardi di posti a tavola”.

Una folla di commensali che si può dividere, dal punto di vista dei consumi alimentari, in circa due miliardi di persone i cui fabbisogni sono soddisfatti, talvolta con un eccesso di alimenti che provocano obesità e malattie e inducono a sprechi. Circa quattro miliardi di persone che abitano i paesi in via di rapida industrializzazione come Cina, India, Brasile e altri, con consumi alimentari crescenti; in qualche caso fino al livello di quelli dei paesi più avanzati, anche se in essi sopravvivono vaste zone di povertà e denutrizione. Infine sulla Terra c’è circa un miliardo di persone che ha disponibile alimenti in quantità appena sufficiente o insufficiente per la sopravvivenza.

Sono cifre che vengono ripetute nelle frequenti denunce dello scandalo di questa situazione e della necessità di provvedere a sfamare i poveri. Lo scandalo sta anche nel fatto che le risorse alimentari offerte dalla natura spesso sono usate male o malissimo. Il cibo che mettiamo in tavola ci arriva dopo un lungo cammino che comincia nei campi e comprende le complesse operazioni di preparazione del suolo, di distribuzione delle sementi e dei concimi, di irrigazione, la paziente attesa che le piante crescano superando alluvioni o siccità o vento, l’attacco di parassiti e altre avversità. La catena continua con la raccolta delle derrate alimentari, il trasporto attraverso ferrovie, camion, navi dalle zone agricole fino ai numerosi processi industriali di conservazione e trasformazione con l’impiego di prodotti chimici, metalli e materie plastiche per le confezioni e con il trasporto fino alla distribuzione.

Una parte dei raccolti vegetali viene destinata all’alimentazione di bovini, suini, pollame; solo una parte, spesso solo un decimo, delle sostanze nutritive vegetali si trasforma in sostanze nutritive per l’alimentazione umana; il resto finisce negli escrementi inquinanti, nei gas del metabolismo animale, in scarti e rifiuti. Gli animali e i loro prodotti viaggiano fino ai macelli e alle industrie di conservazione e trasformazione, anche qui con perdite e rifiuti e inquinamenti, e infine arrivano nei negozi e sulla nostra tavola come carne, uova, latte, gli alimenti con le proteine più pregiate. In tutto questo c’è una componente nascosta ma importante: l’energia.

Gli studi concordano nell’indicare che ogni caloria di alimenti umani ha comportato l’impiego di sette calorie di energia nell’agricoltura, industria, zootecnia, trasporto, distribuzione, uso domestico di frigoriferi e cottura. Se si pensa che l’energia utile per una persona ammonta a circa un milione di chilocalorie all’anno e che questa energia corrisponde al contenuto energetico di cento chili di petrolio, si vede che il cibo consumato dai sessanta milioni di abitanti dell’Italia ha comportato un impiego di energia equivalente a quella di 40 milioni di tonnellate di petrolio, pari a circa un terzo dell’intera energia usata in Italia. L’energia richiesta per far arrivare il cibo nelle nostre tavole è stata usata in parte in Italia, in parte nei lontani paesi da cui importiamo alimenti.

Su scala globale si può calcolare che, per la produzione di alimenti viene usato circa un quinto dei consumi mondiali di energia, con conseguente inquinamento atmosferico, soprattutto di gas responsabili dei mutamenti climatici. I mutamenti climatici, da parte loro, rendono più costosa, come soldi, come consumo di energia e di acqua e come inquinamento, la produzione di alimenti, una situazione destinata ad aggravarsi e mano a mano che aumenterà la richiesta di cibo da parte della popolazione più povera del pianeta. Una spirale perversa. E’ possibile sfamare un po’ meglio gli affamati soltanto attraverso un crescente sfruttamento delle riserve, limitate, sia di combustibili fossili sia di acqua, e attraverso un crescente inquinamento delle acque, dell’aria e del suolo.

Una soluzione potrebbe essere rappresentata da una nuova valorizzazione delle attività agricole e agroindustriali non tanto sognando orti domestici, o ristoranti a chilometri-zero, o con le mode alimentari, ma con una migliore conoscenza tecnico-scientifica di tutta la movimentazione di natura, materie e lavoro dai campi, alle industrie, al consumo. Solo così sarà possibile accertare dove e come è possibile limitare sprechi di energia di acqua, di alimenti, diminuire inquinamenti e attenuare peggioramenti ambientali: un bel compito per il futuro ministro dell’agricoltura, o come si chiamerà, e un impegno dell’ecologia, della chimica, dell’ingegneria e della merceologia al servizio del prossimo.



martedì 12 febbraio 2013

Dominare o custodire la Terra ?


La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 4 agosto 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Il dibattito sul rapporto fra “l’uomo” e la natura è stato ben presente in tutta la storia del movimento ecologico fin dagli anni sessanta. Perché “l’uomo”, inteso come insieme di donne e uomini, dovunque abitanti, con le sue azioni distrugge le foreste, inquina i fiumi e il mare, provoca il peggioramento del clima, l’avanzata dei deserti ? lo fa perché “è cattivo” ? lo fa perché ciò è “imposto” dalle regole economiche ? perché per avere più merci e più ricchezza si finisce per avere meno acqua e aria pulita ?

martedì 29 gennaio 2013

L'insostenibilità della sostenibilità

Villaggio Globale (Bari), 15, (60), dicembre 2012

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Gli anni sessanta del Novecento sono stati anni di grandi rivoluzioni: i paesi liberatisi dal colonialismo si sono messi in testa di rivendicare prezzi più equi per le loro risorse naturali --- rame, gomma, cobalto, fibre tessili, uranio, petrolio --- che fino allora erano stati sfruttati dai loro colonizzatori; in tanti nel mondo avevano imparato a osservare la Terra, fotografata dai satelliti artificiali, e quella sfera nello spazio era apparsa come l’unica casa per gli esseri umani, grande ma limitata nei suoi continenti e nelle sue ricchezze; alcuni economisti avevano ironizzato sul significato del PIL mostrando che questo indicatore ufficiale della ricchezza e del benessere non è capace di tenere conto dei costi e dei dolori provocati da sempre più frequenti inquinamenti o alluvioni; alcuni sociologi avevano mostrato tutti i limiti della società dei consumi; alcuni biologi aveva denunciato che la popolazione terrestre stava crescendo troppo rapidamente rispetto alla disponibilità di cibo, di spazio, di acqua. La terribile parola, “limite”, aveva fatto la sua comparsa nel vocabolario, con grande spavento per gli economisti ufficiali, per capitalisti, imprenditori e uomini politici.

Si poteva capire che gli esponenti di una gioventù ribelle nei campus universitari cavalcassero questa insoddisfazione, che gli operai nelle fabbriche fossero insoddisfatti delle condizioni e dei pericoli del lavoro. Ma che un club proprio di intellettuali borghesi e di imprenditori e governanti si fosse messo in testa di ordinare un libro che, nel 1972, spiegava che sarebbe stato necessario porre dei “Limiti alla crescita” della popolazione, delle merci e della produzione --- questo passava tutti i segni.

Tanto più che la velenosa idea fece una qualche presa nel mondo; anche nei paesi industriali, nel mondo politico, non solo nei giovani ribelli. Qualche governante considerò con attenzione la analisi dei “Limiti alla crescita”, circolò il termine austerità, in Italia rapidamente soffocato; perfino i dirigenti sovietici parlarono di “uso parsimonioso delle risorse”, per non parlare del mondo cattolico in cui circolavano inviti a minori sprechi.

Bisognava provvedere, e i rappresentanti del potere economico crearono una Commissione che elaborò un rapporto, tradotto in italiano col titolo: “Il futuro di noi tutti”, che ha lanciato su larga scala la moda della sostenibilità, definendo "ufficialmente" sostenibile lo sviluppo che consente alla nostra generazione di usare le risorse del pianeta lasciando, alle generazioni future, un patrimonio di risorse che assicuri anche a loro un uguale sviluppo. Per vostra tranquillità ve lo trascrivo nell’originale inglese: "development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs".

Ci sono senza dubbio problemi ambientali, di inquinamento, di impoverimento delle riserve naturali, ma la società capitalistica è capace di assicurare lo stesso lo sviluppo economico, pur con alcune correzioni, uno sviluppo duraturo, sostenibile, appunto.

Purtroppo c'è una insanabile contraddizione in termini in tale definizione: se usiamo oggi una parte delle risorse terrestri non rinnovabili, questa parte non sarà più disponibile per le generazioni future, per coloro che nasceranno fra venti o quarant'anni. Una espressione popolare americana spiega che non si può mangiare la torta e averla ancora. “Can’t eat a pie and have it”.

Inoltre c’è confusione fra sviluppo e crescita dei beni materiali, quelli appunto che si possono ottenere soltanto usando e modificando le risorse fisiche della natura. Lo “sviluppo” consiste nel diritto di avere una vita dignitosa, per le donne e per gli uomini, di disporre di abitazioni, di cibo e di acqua decenti, di avere accesso all’informazione, alla conoscenza, al lavoro e di godere il diritto della libertà.

Nella definizione “ufficiale” di sviluppo sostenibile si fa riferimento alla crescita dell’uso delle risorse naturali che sono, lo spiega bene l'ecologia, limitate fisicamente. Se si traggono petrolio o gas naturale dai pozzi, carbone dalle miniere, inevitabilmente se ne lascia di meno alle generazioni future; se si aumenta la produzione di cereali o di soia si lascia, inevitabilmente, un terreno impoverito di sostanze nutritive e esposto all'erosione; se si usano i fiumi come ricettacolo dei rifiuti e delle scorie delle attività umane non si può sperare e pretendere di avere acqua potabile a valle.

La nostra società di mercato stabilisce che è bene, anzi obbligatorio, fare aumentare il prodotto interno lordo, cioè la quantità di denaro che ogni anno circola attraverso una economia. Ma tale indicatore aumenta soltanto se aumenta la produzione e l'uso e il consumo di automobili, di cereali, di benzina, di cemento, di scarpe, di telefoni e computer, di elettricità, carta, eccetera, tutte cose che possono essere ottenute soltanto estraendo dalle miniere o dai campi o dalle foreste risorse naturali che non saranno più disponibili alle generazioni future; tutte cose che inevitabilmente generano scorie che peggiorano la qualità delle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare) che lasciamo alle generazioni future.

Per farla breve le attuali regole economiche fanno sì che l'attuale società --- italiana, europea, mondiale --- sia intrinsecamente insostenibile. Ci stiamo prendendo in giro, con le grandi attestazioni di amore per lo sviluppo sostenibile, per la sostenibilità, in un mondo in cui le regole di base dei rapporti umani e economici sono insostenibili. E la situazione è tanto più grave in quanto le stesse regole economiche sono state assimilate dai paesi ex-socialisti e vengono puntigliosamente esportate nei paesi emergenti come Cina, India, Brasile e anche in quelli poveri del mondo.

Eppure la speranza di poster continuare sulla gloriosa strada della crescita merceologica, si è diffusa non solo nella borghesia imprenditoriale, ma anche nel mondo ambientalista, quello da cui era nata la grande contestazione degli anni sessanta. E così ci sono stati volonterosi sforzi per attuare un ambientalismo scientifico, per proporre soluzioni tecnico-scientifiche coerenti col disegno di sviluppo sostenibile pur nella doverosa possibilità di produrre e consumare e disporre di più beni materiali.

Se le abitazioni sono strutture che divorano energia e cemento e acqua è possibile immaginare nuovi materiali da costruzione, tecniche di isolamento termico, l’inserimento di pannelli solari sui tetti, pensare e proporre città e case sostenibili.

E’ vero che i consumi di energia sotto forma di prodotti petroliferi, di carbone e gas naturale immettono nell’atmosfera crescenti quantità di gas, come l’anidride carbonica, che modificano la composizione chimica dell’atmosfera e provocano mutamenti climatici disastrosi; è vero che sarebbe ragionevole diminuire le emissioni dei gas serra, consumando di meno energia, ma di energia c’è bisogno ed ecco le proposte sostenibili di filtrare i gas dai camini delle fabbriche e delle centrali, di immettere tali gas nel sottosuolo, di sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili, ed ecco un proliferare di pale eoliche, di pannelli fotovoltaici, di centrali alimentate con la biomassa, magari con oli importati dai paesi tropicali, tutto grazie a provvidenziali finanziamenti pubblici, ed ecco nuove proficue fonti di affari e di crescita finanziaria, pur di far correre automobili sostenibili in congestionate città sostenibili, con grattacieli sostenibili sempre più svettanti nel cielo.

E’ vero che molte merci inquinano durante la produzione e durante il “consumo”, è vero che, a conti fatti, non si consuma niente, che le attività umane non fanno altro che trasformare le merci in rifiuti gassosi, liquidi e solidi --- quattro chili di rifiuti per ogni chilo di merce prodotta e usata --- ma anche qui le soluzioni sostenibili non mancano. E’ possibile trarre elettricità e affari dal trattamento e dal riciclo dei rifiuti, è possibile utilizzare materie alternative biodegradabili tratte dalla biomassa vegetale in alternativa a quelle derivate dal petrolio.

Anche se, col procedere verso improbabili soluzioni sostenibili si è poi visto che si usciva da una trappola per cascare in un’altra; la produzione su larga scala di carburanti sostenibili, alternativi alla benzina, dal mais o dallo zucchero sconvolgeva l’agricoltura dei paesi poveri; l’uso di grassi vegetali per la produzione di carburanti diesel provocava la distruzione delle foreste tropicali per fare spazio a piantagioni di palma. Al punto da riconoscere che si toglieva il cibo di bocca ai paesi poveri per far correre i SUV dei parsi industriali.

Pochi numeri aiutano a mostrare la insostenibilità della sostenibilità. La produzione primaria netta --- cioè il peso (secco) di materiali vegetali formati attraverso la fotosintesi (detratte le perdite per la respirazione vegetale) --- è, sulle terre emerse, di circa 100 miliardi di tonnellate all'anno.

Di questa ricchezza in gran parte rinnovabile, rigenerata ogni anno dai cicli della natura, per l'alimentazione umana e degli animali da allevamento e come legno e altre materie vengono prelevati circa 6 miliardi di tonnellate all’anno. Il peso del carbone, del petrolio e del gas naturale portati via ogni anno dalle viscere della Terra ammonta a circa 12 miliardi di tonnellate, a cui vanno aggiunti circa 30 miliardi di tonnellate all’anno di minerali, materiali da costruzione, tutti non rinnovabili. La trasformazione di tutti i materiali, tratti dalla natura, da parte dei sette miliardi di esseri umani esistenti nel 2012, e che aumentano in ragione di circa 70 milioni di persone all’anno, genera ogni anno circa 35 miliardi di tonnellate di gas anidride carbonica, oltre a miliardi di tonnellate di altri gas che finiscono nell’atmosfera alterandone la composizione chimica e accelerando i mutamenti climatici; e genera miliardi di tonnellate di sostanze organiche e inorganiche che finiscono nelle acque prelevate dai corpi naturali e restituite inquinate alla natura in ragione, nel mondo, di circa 4000 miliardi di tonnellate all’anno; e genera scorie e residui solidi che finiscono sul suolo. Una parte infine, soprattutto di minerali e metalli e rocce, resta immobilizzata nella tecnosfera --- nell’universo delle cose fabbricate, edifici, macchinari, oggetti a vita media e lunga --- che si dilata continuamente e irreversibilmente.

In un piccolo paese come l’Italia la sola massa dei rifiuti solidi ammonta a 0,2 miliardi di tonnellate all’anno, quella dei gas di rifiuto ammonta a oltre mezzo miliardo di tonnellate all’anno, la massa di acqua che entra nelle fabbriche, nelle case e nei campi e ne esce contaminata da rifiuti e agenti vari ammonta a circa 60 miliardi di tonnellate all’anno.

Volenti o nolenti, comunque di cose materiali gli esseri umani hanno bisogno, in quantità crescente anche per l’inarrestabile aumento della popolazione mondiale. Tutto quello che si può fare per attenuare la insostenibilità dovuta all’impoverimento e al peggioramento della qualità ecologica delle risorse naturali, è cominciare a chiedersi: chi ha bisogno di che cosa ?

Davanti a circa 2000 milioni di abitanti della Terra che sono sazi di beni e di merci, talvolta obesi di sprechi, ci sono sulla Terra circa 3000 milioni di persone che, nei paesi di nuova industrializzazione, stanno correndo a tutta velocità nell’aumento insostenibile della produzione e del consumo di energia, di metalli, di cemento, di automobili, di apparecchiature elettroniche, e poi ci sono altri 2000 milioni di persone povere e metà di queste non dispongono di una quantità sufficiente di cibo, di acqua di buona qualità, sono povere di libertà e dignità, beni che richiedono anch’essi beni materiali, perché non si può essere liberi e non si può vivere una vita dignitosa se mancano abitazioni decenti, letti di ospedale, banchi di scuola. Una mancanza che è giusta fonte di rivendicazioni, di violenza, di pressioni migratorie verso paesi opulenti che non vogliono spartire la loro opulenza. Una mancanza che può essere sanata soltanto con la terribile e improponibile proposta di imporre ai ricchi di consumare di meno per lasciare ai poveri una maggiore frazione di beni materiali che gli consenta di avere una vita minimamente decente. Qualche considerazione sul produrre che cosa per chi in: http://www.scribd.com/doc/93089744/unsustainibility.

Resta la domanda: quanto a lungo può durare una società insostenibile ? Da quando gli esseri umani hanno abbandonato la loro condizione di animali cacciatori e raccoglitori, in relativo equilibrio con i cicli rinnovabili e sostenibili delle risorse naturali, è cominciato un inarrestabile cammino verso l’aumento della popolazione, l’aumento dei desideri di questi nuovi animali speciali, gli umani, e, di conseguenza, il crescente impoverimento delle riserve di “beni” naturali e il peggioramento delle condizioni, della qualità, dei corpi naturali. L’insostenibilità è la punizione di cui parla la Bibbia per coloro che hanno osato mangiare il frutto della conoscenza.

E’ del tutto vano chiacchierare su quanto a lungo potrà durare la storia dell’uomo sulla Terra, su quanto potranno durare le riserve di petrolio o di minerali, su quanti gradi aumenterà la temperatura del pianeta o su quanti metri si solleveranno gli oceani, sul massimo numero di esseri umani che la Terra può sopportare. Nove miliardi di persone a metà del XXI secolo ? dieci o undici alla fine del XXI secolo ? Come vivranno e dove saranno questi in futuro ? Finirà un giorno l’avventura degli esseri umani su questo pianeta ? Domande futili perché anche dopo la scomparsa degli esseri umani, dei nostri arroganti grattacieli e delle nostre fabbriche e centrali, e anche quando le scorie radioattive che lasciamo alle generazioni future si saranno stancate di liberare radioattività, continuerà la vita, quella si, sostenibile, a differenza delle cose umane, fino a quando il Sole anche lui, non si sarà stancato di gettare calore nello spazio. Per ora, nel brevissimo (rispetto ai tempi della natura) spazio di una o dieci o cento generazione, accontentiamoci di ammirare il mondo che ci circonda e, se possibile di rispettarne le meraviglie.









mercoledì 16 gennaio 2013

Carta e informatica

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 15 gennaio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Uno degli imperativi dell’ambientalismo è quello di coniugare l’ecologia con l’economia. Una iniziativa in questo senso è rappresentata dalla proposta di sostituire le domande di iscrizione alle scuole e i documenti relativi alle carriere scolastiche e le stesse pagelle degli studenti, finora su carta, con moduli da compilare sul computer e da rendere disponibili in forma telematica. Gli scopi sono vari: uno ecologico, la possibilità di risparmiare carta e quindi di evitare il taglio di alberi e tutti i rifiuti e inquinamenti associati sia alla produzione della carta, sia allo smaltimento delle carte usate.

martedì 8 gennaio 2013

Anno nuovo, elezioni e ambiente

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 8 gennaio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Anno nuovo, nuovo governo nazionale, nuovi governi locali, campagne elettorali in pieno svolgimento. In tutti i programmi elettorali c’è sempre, talvolta affrettato, un riferimento all’ambiente, all’economia verde, al territorio, alla sostenibilità, ma credo che gli elettori avrebbero motivo di chiedere a chi eleggeranno in Parlamento o alla Regione o al Comune, che cosa intende fare per i veri problemi ambientali del suo territorio. Proverò a citarne alcuni in un elenco molto parziale.

Comincerò con la difesa del suolo: per evitare future frane e alluvioni sarebbe bene che i candidati mostrassero di essere consapevoli che occorre avviare delle opere di rimboschimento e di aumento della protezione vegetale dei terreni e di pulizia del greto di torrenti, fossi, fiumi, una specie di polizia e igiene idraulica, in modo da identificare dove si trovano degli ostacoli e freni al libero moto delle acque quando aumentano improvvisamente le piogge. Che tale aumento sia certo, nei prossimi mesi e probabilmente per tutta la nostra vita futura, è garantito dagli irreversibili mutamenti climatici dovuti alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera.

A questo proposito credo sia doveroso chiedere ai candidati quali indirizzi daranno ai governi, nazionale e locali per quanto di loro competenza, per rallentare le immissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, soprattutto) nell’atmosfera. Non si tratta di azioni di competenza soltanto delle Nazioni Unite, perché ciascun paese è tenuto a fare la sua parte con azioni sulla regolazione del consumo di carbone, petrolio, gas naturale, sulle emissioni di metano dalla putrefazione dei rifiuti nelle discariche e negli allevamenti animali.

Un secondo problema, strettamente legato alla difesa del suolo, riguarda la guerra alla sete: l’acqua per le città, le industrie, i campi, circa 40 miliardi di metri cubi all’anno, proviene dai pozzi, dai fiumi, dai bacini continuamente riforniti dai 150 miliardi di metri cubi di acqua che cade ogni anno come pioggia e neve sul territorio nazionale. In questi ultimi anni proprio i mutamenti climatici hanno provocato settimane e mesi di scarsità e mancanza di acqua, con maggiori danni nel Mezzogiorno e nelle isole.

E poi di quale acqua parliamo ? Non appena si misurano i caratteri chimici stabiliti delle norme europee ci si accorge, per esempio, che la concentrazione di arsenico nelle acque di alcune zone dell’Italia centrale è così elevata da costringere i sindaci a dichiarare non potabile, secondo la legge, l’acqua dei loro acquedotti, per la maggior gloria dei venditori di acqua in bottiglia il cui uso raggiunge già livelli insostenibili, oltre 10 milioni di metri cubi all’anno in miliardi di bottiglie di plastica o vetro. Legato alla circolazione dell’acqua nel territorio è anche il problema delle fognature e dei depuratori; è il Parlamento che stabilisce quanti soldi potranno essere spesi, ma sono le amministrazioni locali che dovranno vigilare se le fogne sono efficienti, se i depuratori funzionano davvero o se ci si accontenta di una pulitina prima di mettere le acque sporche nel mare dove poi fioriranno le alghe d’estate e compariranno meduse e batteri, con piagnistei per la crisi del turismo.

Altro urgente problema che i nuovi legislatori e amministratori dovranno affrontare riguarda lo smaltimento dei rifiuti, affidato a società spesso private il cui fine è il profitto aziendale, piuttosto che una ragionevole raccolta differenziata, un utile riciclo dei rifiuti riciclabili, un deposito in discariche più o meno ben fatte, un trattamento che assicuri la riduzione dell’ingombrante volume dei rifiuti. Si tratta di decidere ogni anno che cosa fare di 35 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, cento milioni di tonnellate di rifiuti agricoli, industriali e di residui di demolizioni di edifici, fra cui alcuni milioni di tonnellate del sempre presente amianto che non muore mai e si infila dovunque continuando a diffondere malattie e tumori.

I nuovi amministratori dovranno decidere le azioni per la protezione delle spiagge contro l’erosione, altro problema legato alla sorte del turismo futuro, come diminuire l’inquinamento industriale, come bonificare le discariche di scorie tossiche, vecchie ormai di anni o decenni, quali industrie incentivare, al di la delle etichette “verdi” e “bio”, in modo da assicurare lavoro e salute. Non si tratta di eleggere ecologisti o presunti tali, ma di augurarsi che nelle cariche elettive vadano amministratori capaci di documentarsi su qualche buon libro prima di votare su un inceneritore o un rigassificatore.

Molti candidati parlano di nuova moralità, di lotta alla criminalità; ebbene la violenza alla natura e all’ambiente è la prima vittima della criminalità, da quella apparentemente modesta dell’abusivismo edilizio, alla corruzione nelle costruzioni di depuratori e canalizzazioni e strade. Tutte le azioni di difesa dell’ambiente a cui ho fatto un breve cenno richiedono soldi e il vero collaudo delle promesse elettorali sta proprio nel controllo di come saranno affidati e spesi questi soldi







sabato 5 gennaio 2013

SM 1762 -- Ecologia: progressista o reazionaria ? -- 1994

CNS, 4, (11), 141-148 (giugno 1994)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La contestazione ecologica è nata come protesta contro l'uso distorto e violento della tecnica e del territorio. Ci sono esempi di tale protesta già nel sei-settecento: allora si trattava per lo più della protesta di singoli individui che venivano danneggiati dai fumi dei forni metallurgici, dalle fabbriche di prodotti chimici, delle attività minerarie. In genere la protesta partiva da chi aveva qualcosa da perdere: piccoli agricoltori, piccoli proprietari, membri di una classe "media" che sarebbe poi diventata classe borghese. Il proletariato, avendo poco da perdere, anzi in un certo senso qualcosa da guadagnare, dalle fabbriche e dalle miniere, aveva altre cose a cui pensare: l'occupazione, la sopravvivenza.