venerdì 31 luglio 2009

SM 2843 -- Cristiani e ecologia

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 29 maggio 2007

Giorgio Nebbia

Nel 2007 cadevano cento anni dalla nascita di Lynn White (1907-1987) uno studioso americano di storia del Medioevo. Qualcuno si chiederà che cosa c’entra il Medioevo con l’ambiente; eppure Lynn White ebbe un’influenza come pochi altri nella ricerca delle origini della crisi ambientale. Autore di molti libri fondamentali sull’evoluzione della tecnologia nel Medioevo (uno di questi, “Tecnica e società nel Medioevo”, tradotto anche in italiano dal Saggiatore), nel 1967 White pubblicò nella rivista “Science” un breve articolo intitolato “Le radici storiche della crisi ecologica”. La tesi era abbastanza semplice: fino a quando le comunità umane sono state animiste e politeiste, hanno osservavato la natura circostante con meraviglia e rispetto, addirittura associando alle sorgenti, ai boschi, ai raccolti, delle divinità (il “genius loci”) da propiziarsi e ringraziare per i doni che fornivano attraverso i cicli naturali. L’avvento della religione giudaica e poi cristiana ha spazzato via le precedenti divinità affermando l’esistenza di un Dio che è lui creatore e che ha assegnato all’uomo una posizione al di sopra della natura, chiamato ad un destino “sovrannaturale”. Lo spiega bene il racconto della creazione contenuto nel primo capitolo del primo libro della Genesi, in cui al versetto 28 Dio affida all’uomo il compito di “sottomettere e dominare” la Terra e quindi vegetali e animali e corpi naturali, strumenti per la trascendenza che è il fine ultimo e unico dell’uomo stesso. Non c’è da meravigliarsi, sostenne White, se, nel loro lungo cammino, le società occidentali cristiane si sono sviluppate prendendo alla lettera questo invito, senza esitare a distruggere montagne e foreste a uccidere gli animali con la caccia, tutte cose che facevano comodo, perché tanto la missione umana aveva come obiettivo finale l’aldilà. L’unica figura del cristianesimo che ha riconosciuto l’acqua, il cielo, gli animali allo stato naturale, il fuoco, come sorelle e fratelli, sullo stesso piano, non al di sotto degli umani, è stato Francesco d’Assisi, diventato santo nonostante il contenuto un po’ eretico e sovversivo della sua predicazione, e che ben avrebbe meritato, scrisse White, di essere proclamato patrono degli ecologisti.

L’articolo suscitò un vespaio nella gerarchia cattolica (molto meno fra i protestanti); diecine di studiosi dedicarono anni a scrivere importanti saggi per dimostrare che la “colpa” dei guasti ambientali non può essere attribuita al credo giudaico-cristiano, e per sofisticare su che cosa va inteso per “dominio” sulla natura; un “dominatore” può anche essere benevolente verso le cose dominate, anche se resta qualche dubbio che tale benevolenza possa manifestarsi con il taglio dei boschi e con l’ammazzare gli animali innocenti. Sta di fatto che quel breve articolo di White indusse i cristiani e i non cristiani a chiedersi sotto quale spinta culturale stessero devastando la natura, sporcando acque e cielo. Ci si ricordò allora che di racconti della creazione nella Bibbia ce ne sono due; quello contenuto nel primo capitolo, appunto con l’invito a dominare la Terra, è la redazione “sacerdotale” relativamente più recente. Nel secondo capitolo (la redazione “jahwista” di un paio di secoli prima) invece c’è un altro racconto; al versetto 15 Dio pone l’uomo “nel giardino” dandogli il compito di coltivarlo e custodirlo e in molti altri passi la Bibbia ricorda all’uomo che la Terra non è sua, ma di Dio, che gliel’ha data in prestito.

L’articolo di White e le (in qualche caso aspre e acide) repliche risalgono agli anni dal 1967 al 1973, a quella “primavera dell’ecologia” in cui studiosi, ambientalisti, uomini politici si interrogarono su che cosa fare per rallentare il degrado che stava apparendo sempre più grave; sono gli anni successivi al Concilio Vaticano II, alla pubblicazione dell’enciclica “Populorum progressio” (1967, quarant’anni fa), ai vivaci dibattiti su quale potesse essere una visione cristiana dell’ecologia. Può essere interessante ricordare che il Papa di allora, Paolo VI, nel marzo 1971 chiamò “creature anch’esse” l’aria e le acque compromesse dagli inquinamenti e che si rivolse ai partecipanti alla conferenza delle Nazioni unite sull’ambiente umano (Stoccolma 1972) con un messaggio di alto contenuto profetico che fa impallidire il chiacchiericcio ecologista attuale. Infine il papa Giovanni Paolo II, nel novembre 1979, ha proclamato davvero San Francesco patrono dei cultori di ecologia, come aveva suggerito White.

Forse la soluzione alla crisi ambientale, ancora più grave oggi, a oltre trent’anni da quei tempi, va cercata riconoscendo che gli attentati alla natura rappresentano una forma di violenza non solo contro l’aria o l’acqua o i vegetali o gli altri animali, ma direttamente contro gli altri esseri umani, contro “il prossimo”. Contro il prossimo vicino, quello che avveleniamo con le polveri e i gas dei tubi di scappamento, con i fumi dei rifiuti, con le sostanze chimiche tossiche che pure sono indispensabili per assicurarci le comodità che consideriamo irrinunciabili; contro il prossimo lontano da noi nello spazio, come avviene quando i nostri inquinamenti e consumi impoveriscono e danneggiano la natura e gli abitanti di paesi lontani, per lo più dei paesi poveri; contro il prossimo del futuro che avrà peggiori condizioni di vita e climatiche “grazie” ai gas che oggi immettiamo nell’aria o ai prodotti radioattivi che gli lasciamo in eredità. La violenza ambientale contro il prossimo dovrebbe scandalizzare tutti, ma i cristiani di più.

mercoledì 29 luglio 2009

Sulla protesta

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 14 aprile 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Si racconta che in tempi antichi il principe incoraggiasse, o addirittura pagasse, l’opposizione perché sapeva, lui che era un principe saggio, che era opportuno che ci fosse qualcuno che lo avvertisse quando compiva degli errori. A questo pensavano coloro, ed io fra questi, che sostennero l’opportunità della presenza, nell’ambito del Ministero dell’ambiente istituito dal primo governo Craxi, di una sede in cui potessero far sentire la loro voce le associazioni ambientaliste, che da molti anni esercitavano una attiva e critica contestazione delle azioni che compromettevano l’ambiente, la natura e la salute.

Nella legge 349 del luglio 1986, che istituiva tale nuovo Ministero, fu inserito un articolo 13 che stabiliva che le associazioni ambientaliste qualificate per la loro attività e per la presenza nel territorio, facessero parte del consiglio nazionale dell’ambiente. All’articolo 18 di tale legge era stabilito che le associazioni riconosciute potevano intervenire nelle denuncie dei fatti lesivi dell’ambiente e potevano fermarli anche ricorrendo ai tribunali amministrativi regionali (TAR).

Per comprendere l’importanza di questa pur parziale conquista va ricordato che era stata la contestazione ecologica a denunciare, dagli anni sessanta del Novecento in avanti, gli inquinamenti dell’aria, delle acque e del mare, le fabbriche inquinanti, l’abuso dei pesticidi e dei detersivi non biodegradabili, a fermare opere giustamente ritenute e rivelatesi nocive, come centrali elettriche, raffinerie di petrolio, centrali nucleari, stabilimenti petrolchimici, fabbriche di bioproteine, depositi di scorie radioattive, eccetera.

Questa protesta aveva così salvato centinaia di migliaia di vite umane che altrimenti sarebbero state compromesse da agenti tossici, radioattivi, cancerogeni. Protesta sgradevolissima per molti imprenditori, per amministratori pubblici e per lo stesso governo che hanno spesso ridicolizzato e cercato di mettere a tacere questi “disturbatori”. Col passare degli anni la contestazione si è affievolita e sono avanzate energicamente le politiche ispirate a togliere vincoli alle imprese, agli inquinatori e speculatori; così la legge 186 è stata, a varie riprese, svuotata di molti contenuti nel 2001 e, soprattutto, col cosiddetto testo unico sull’ambiente del 2006.

Poco dopo un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (alla fine del mandato del II governo Prodi) datato 8 aprile 2008 stabiliva che potevano essere coperti dal segreto di stato gli impianti civili per produzione di energia ed altre infrastrutture “critiche” e che nei luoghi coperti da segreto di stato le funzioni di controllo ordinariamente svolte dalle aziende sanitarie locali e dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco sarebbero state svolte da autonomi uffici. Il che significa che, per decisione del Presidente del Consiglio, un inceneritore avrebbe potuto essere considerato infrastruttura “critica” e quindi coperto dal segreto di stato e che i controlli sulle esecuzioni e sulle emissioni di fumi inquinanti avrebbero potuto essere demandati alle forze armate e i risultati resi inaccessibili alle popolazioni interessate.

Più recentemente, nel gennaio 2009, la legge 28 gennaio 2009 n. 2 all’articolo 2 prevede che per le opere pubbliche ritenute prioritarie per lo sviluppo economico del territorio possono essere nominati commissari straordinari con poteri sostitutivi delle amministrazioni interessate.

Ma neanche questo bastava per mettere a tacere l’opposizione ecologica che anzi si è fatta più vivace nella protesta contro un numero crescente di nuove iniziative, dalle discariche di rifiuti, agli inceneritori, sia pure ribattezzati eufemisticamente termovalorizzatori, a nuove fabbriche inquinanti. La protesta nel nome della salute e dell’ambiente ha utilizzato allora l’ultima possibilità rimasta dalla legge originale, il ricorso ai TAR che talvolta hanno ritenuto fondate le denunce delle associazioni e dei movimenti di difesa dell’ambiente.

Per mettere ulteriormente il bavaglio all’opposizione il 10 marzo 2009 un gruppo di 134 deputati ha depositato alla Camera un disegno di legge che toglie anche questo diritto di protesta. Secondo i proponenti molte associazioni ricorrono ai TAR per far sospendere opere pubbliche e private, ritenute dannose per l’ambiente e la salute, con motivazioni “pretestuose”o per ”egoismo territoriale”, per non volere vicino casa propria una centrale o un inceneritore che potrebbe danneggiare piccoli interessi locali, egoistici, appunto. Se la protesta è ritenuta non motivata l’associazione è punita ai sensi del codice civile con le sanzioni previste per chi agisce con malafede o colpa grave. Se è ritenuta motivata le opere vanno avanti lo stesso e l’associazione sarà indennizzata. Quale giudice stabilirà se la protesta contro un inceneritore che potrebbe causare danni alla salute fra anni, è pretestuosa e fatta in malafede ? Erano pretestuose le proteste contro la cava di amianto che avrebbe causato centinaia di tumori ai lavoratori e alle popolazioni vicine, ma solo dieci o venti anni dopo ?

Con il nuovo disegno di legge nessuno potrebbe fermare la costruzione di una strada in zona franosa o che altera la circolazione delle acque, la costruzione di edifici destinati a crollare al primo terremoto. Un Parlamento e un governo che avessero a cuore l’interesse del paese, il “bonum publicum”, dovrebbero incoraggiare e ascoltare la protesta di chi, talvolta proprio perché vive in un territorio e ne conosce caratteri e vincoli, chiede di “non fare” opere o interventi che possono danneggiare l’ambiente e la salute. E’ certo che occorre costruire strade e fabbriche e merci, perché questo risolve problemi umani, aiuta a unire paesi lontani, a rendere migliore la vita e talvolta l’ambiente e la salute, ma occorre vigilare perché molte opere e interventi nascondono delle trappole da cui è poi difficile uscire.

A mio modesto parere la contestazione ecologica è come il gallo sul tetto: vede le prime luci dell’alba del giorno che sorge --- il sorgere di nuove attenzioni e nuovi diritti civili --- e canta e sveglia chi dorme nella casa e che è disturbato perché vorrebbe continuare a dormire. Quanto più si cerca di soffocare la protesta, tanto più vivace si fa questa protesta che alla fine vince quando è in gioco il diritto alla vita e alla salute.

SM 3098 -- I megawatt nascosti

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 28 luglio 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Qualche tempo fa l’Acquedotto Pugliese ha riattivato una delle piccole centrali idroelettriche che erano state costruite oltre mezzo secolo fa e che erano poi state abbandonate. Nei giorni scorsi la Gazzetta del Mezzogiorno ha pubblicato la notizia che, nell’ambito del Parco del Pollino, in Basilicata, verranno restaurati, per ora a fini didattici e dimostrativi, due mulini: quello di San Severino Lucano che era alimentato dalle acque del torrente Frido, un affluente del Sinni che sbocca nel Mar Ionio, e quello di Viggianello, che era alimentato dalle acque del Mercure, un affluente del Lao che sbocca nel Tirreno. Pochi mesi fa Paolo Cremonini, nella rivista “Vita in campagna”, ha ricordato l’importanza storica ed energetica dei moltissimi mulini ad acqua sparsi per l’Italia.

domenica 26 luglio 2009

Bertrand Russell 'ecologo'

Ovada --- 7-8 luglio 2007

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Se ci si chiede se Bertand Russell può essere definito “ecologo” nel senso che si da comunemente a questa parola, difensore degli animali o dei boschi, impegnato contro inceneritori o effetto serra, direi che l’aggettivo è inappropriato. Ma se si pensa a Russell come promotore delle idee in cui affondano le vere radici del movimento per i nuovi diritti degli esseri viventi e inanimati, del movimento per eliminare la violenza esercitata contro l’ambiente dalle attività umane, dalla produzione e dal consumo delle merci e in particolare dalle merci e macchine oscene per eccellenza, più antiecologiche, che sono le armi e le armi atomiche --- allora il termine è del tutto appropriato e il pacifismo di Russell è strettamente legato all’impegno di “far pace col pianeta”, secondo il titolo di un libro di Barry Commoner (1917-), altro “ecologo e pacifista”.

Bertrand Russell (1872-1970) è vissuto ed ha operato qualche decennio prima di Commoner e della “primavera dell’ecologia”, databile agli anni sessanta del Novecento. Russell, che tuttavia tale “primavera” ha preparato con i suoi scritti e la sua testimonianza, è stato un intellettuale che ha attraversato tutto il Novecento e alcune delle sue opere fondamentali (più vicine all’”ecologia”) sono state scritte nella prima metà del Novecento e in particolare nella stagione della grande crisi economica e del New Deal. Il suo “Freedom and organization”, noto da noi come “Storia delle idee del XIX secolo”, è del 1934 e il XIX secolo di cui parla presentava tutti i caratteri che sarebbero stati all’origine della crisi ecologica del Novecento, cioè i caratteri dell’industrializzazione selvaggia e della divinizzazione del consumismo.

Russell, da questo punto di vista, a mio parere, va letto insieme, fra l’altro, a “The theory of the leisure class” (1899, 1912) di Thorstein Veblen (1857-1929), a “Luxus und Kapistalismus”, del 1913, di Werner Sombart (1863-1941), insieme a ”Technics and civilization”, dello stesso 1934, di Lewis Mumford (1895-1990).

Un intellettuale del New Deal aveva davanti agli occhi le conseguenze della nascita e crescita della società industriale e della cultura “economica” del tempo. L’attacco sistematico e lo sfruttamento delle risorse naturali si erano manifestati in tutta la loro violenza con la prima rivoluzione industriale che, prendendo l’avvio da una serie di eventi di natura culturale e di scoperte tecnico-scientifiche, stava costruendo una nuova società, quella che Geddes e Mumford chiamarono paleotecnica, fondata sull’uso di nuovi materiali “economici”, come il ferro e il carbone. Le materie della società paleotecnica avevano consentito lo sviluppo dei processi di meccanizzazione applicati alle miniere, alle filature e tessiture, grazie all’importazione del cotone dalle colonie, i processi dell’industria chimica, grazie all’importazione del nitro dal Cile, della gomma dal Brasile, eccetera. La nuova maniera di produrre aveva rapidamente portato la fine della società artigiana e la nascita della società operaia e dell’imprenditore capitalistico.

Con la crescente importanza della macchina, infatti, le attività produttive non erano più basate sull’abilità del lavoratore, ma sul capitale che consentiva l’acquisto delle macchine; l’era paleotecnica era destinata a segnare profondamente la storia della umanità e della natura.

Un osservatore radicale non faceva fatica a riconoscere in tali “perfezionamenti” economici il moltiplicarsi delle morti nelle miniere, dei camini che gettavano fumi e acidi nell’ambiente, soprattutto sulle città e nei quartieri del proletariato che la fabbrica “voleva” accanto a se, portati via dai campi nell’illusoria speranza di migliori salari.

D’altra parte i perfezionamenti delle macchine furono possibili --- e furono determinanti ---per l’assurgere del consumo a ideale dell’uomo; partito dalle corti e dai cortigiani del 1700, questo ideale fu rapidamente assorbito dal ceto borghese. I beni erano rispettabili e desiderabili indipendentemente dalle necessità di vita che potevano soddisfare e le teorie filosofiche ed economiche della nuova era, formulate in base al successo economico, vennero espresse in termini sciali dagli utilitaristi del XIX secolo.

Libertà significava libertà dalle restrizioni agli investimenti privati, libertà di profitto e di accumulazione privata; gli apologeti di questo ordine, da Bernard Mandeville ad Adam Smith, affermavano che essa avrebbe prodotto la massima quantità possibile di benessere e felicità per l’intera comunità mentre in realtà era ispirata soltanto da egoismo, avidità e sete di potere, e determinava un crescente degrado dell’ambiente i cui effetti ricadevano principalmente sulle classi più deboli.

Bertrand Russell definisce impietosamente Bentham, Malthus, Ricardo, Mill, uomini piuttosto poco interessanti, privi del tutto della cosiddetta “visione”, prudenti razionali deducenti con cura, da premesse che erano abbondantemente false, conclusioni che erano in armonia con gli interessi della classe media.

Il risultato fu quello che Mumford chiama l’ “impero del disordine, la società della bruttura e della sporcizia, trascinatasi fino ai nostri giorni con qualche progresso rispetto a quella rappresentata dalla Coketown descritta da Dickens in “Tempi difficili”. Le due anime nere del romanzo, Thomas Gradgrind e Josiah Bounderby, rappresentano le figure tipiche della rivoluzione industriale vittoriana, rigidi datori di lavoro, il primo, la personificazione dell’ideale aggressivo del far soldi, il secondo. La città paleotecnica in cui i protagonisti si muovono --- appunto la Coketown di Dickens --- era il più orribile ambiente umano che il mondo avesse mai visto, mancava di sole, d’aria buona, di acqua pulita, di fognature, circondata dalle catapecchie dei nuovi immigrati.

Se parlavo prima di “qualche progresso” nell’ecologia urbana rispetto a Coketown o alla Chicago di “La giungla” di Upton Sinclair, intendevo riferirmi all’ecologia delle città abitate da mille milioni di terrestre del Nord del mondo, perché per altri quattro o cinque mila milioni di terrestri, nel Sud del mondo, le condizioni non sono molto migliorate, essendo il Nord industriale stato abile nel trasferire le nocività e lo squallore ai poveri del Sud del mondo.

In queste condizioni il lavoro non è più la condizione per trasformare la natura al servizio dell’uomo, ma la schiavitù a cui ci si sottopone per raccogliere quel po’ di denaro che consente un qualche accesso alla società dei consumi imposta come unico modo di essere dal capitalismo. Si capisce così il senso di quel graffiante libretto, del 1935, di Russell sull’elogio dell’ozio che riprendeva e continuava le motivazioni e le considerazioni che qualche decennio prima avevano indotto Lafargue, il genero di Marx, a scrivere un breve saggio sullo stesso tema.

Russell può bene essere compreso come padre intellettuale della contestazione ecologica se si considerano correttamente le vere promesse culturali dell’“ecologia” moderna. Tali premesse affondano, a mio modesto parere, nella critica della società capitalistica, appunto, e delle sue conseguenze culturali e nella critica della società dei consumi, del “negozio”, della frenesia del fare e del produrre e possedere merci, a cui si contrappone l’ozio, il fermarsi.

Ma agli anni della ripresa dalla crisi americana e mondiale altre tempeste seguirono: l’avvento dei fascismi, la guerra di Etiopia e di Spagna, la diffusione di armi e di aerei e l’impiego di aggressivi chimici su una scala quale mai si era vista prima, con il coinvolgimento della popolazione civile, la continua violazione dei patti che i paesi “civili” si erano pur dati alla fine del 1800. Guerra, nel XX secolo, significava anche devastazione di campi, di boschi e di fiumi, fame e sete. Una storia delle conseguenze ambientali delle guerre in tutto il Novecento è forse ancora da scrivere.

Contro alcune delle più vistose forme di violenza militare (e ecologica) troviamo ancora coinvolto il pacifista Russell. La fabbricazione della bomba atomica fu l’inizio della nuova ondata di violenza alla natura, di dimensioni tecnico-scientifiche, ma soprattutto culturali, enormi. La bomba atomica diede per la prima volta all’uomo la sensazione che le forse che potevano essere scatenate con la tecnica avevano dimensioni senza precedenti: le bombe atomiche potevano realizzare la distruzione dell’umanità a milioni di persone per volta e i residui radioattivi potevano disperdersi nell’intera biosfera raggiungendo livelli di pericolosità tali da compromettere la stessa sopravvivenza dell’umanità.

Con la bomba atomica forse per la prima volta si vide che l’inquinamento, in questo caso dovuto alla ricaduta e dispersione dei frammenti radioattivi che si formano durante le esplosioni nell’atmosfera, colpisce le zone vicine all’esplosione, ma anche le zone lontane e circola, attraverso l’atmosfera, per anni, nell’intera biosfera e viene assorbito da popolazioni anche lontane. Non solo. La fabbricazione dei materiali per le bombe nucleari, e anche quella del “combustibile” per i reattori “commerciali”, per gli atomi spacciati “per la pace”, comporta processi chimico-industriali che generano residui radioattivi che conservano la radioattività per decenni, secoli e millenni, che condannano le generazioni future lontane nel tempo a fare la guardia e a tenere sotto controllo depositi che non hanno voluto, da cui non hanno tratto alcun vantaggio “economico”.

Tutto questo ci appare chiaro oggi, ma già nei primi anni cinquanta del Novecento era noto ed evidente l’effetto che le “piccole” bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano fatto sulle due sventurate città giapponesi, ed era chiaro l’effetto devastante anche per l’ambiente e la salute, delle esplosioni sperimentali di bombe atomiche, centinaia di volte più potenti di quelle cadute sul Giappone, che si stavano svolgendo nel mondo da parte delle grandi potenze.
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Dopo le esplosioni delle prime bombe atomiche nel 1945 era sorta violenta la polemica sulla moralità delle nuove armi; tale polemica si fece ancor più accesa negli anni successivi quando gli esperimenti nucleari nell’atmosfera dimostrarono come l’aumento del livello di radioattività della biosfera stesse superando i limiti considerati di sicurezza.

Ci siamo dimenticati tutto ? L’esplosione della prima bomba atomica americana ad Eniwetok, nel 1949, della prima bomba atomica sovietica nel 1949, dell’altra bomba da un megaton, cinquanta volte più potente di quella di Hiroshima, ancora ad Eniwetok, il test Bravo a Bikini con la prima bomba termonucleare da 15 megaton, mille volte più potente di quella di Hiroshima, nel 1954, seguito nel 1955 dall’esplosione della prima bomba a idrogeno sovietica da 1,5 megaton ? Eventi denunciati senza tregua nella stampa e, fra l’altro, nel “Bulletin of the atomic scientists” che aveva iniziato le pubblicazioni proprio nel dicembre 1945.

E’ questa l’atmosfera in cui Russell sollecitò Einstein a scrivere l’appello alla cessazione della corsa atomica, firmato da vari scienziati come Joliot-Curie, Pauling, Rotblat. Sarebbe stata questa campagna, con motivi pacifisti, ma anche attenti al destino ecologico futuro dell’umanità, che ha portato nel 1963 alla firma del trattato che “almeno” vietata le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera e negli oceani --- ce ne erano stati già oltre mille --- anche se la Francia continuò fino ai primi anni settanta le sue esplosioni di bombe atomiche nell’atmosfera, anche se da allora ci sono stati altri mille test nucleari nel sottosuolo. Se i “tests” non continuano con la stessa frequenza come negli anni settanta e ottanta è solo perché oggi è possibile controllare la “buona qualità” delle oltre 25.000 bombe atomiche esistenti nel mondo con processi che non richiedono esplosioni vistose.

Il trattato per il divieto parziale delle esplosioni nucleari del 1963 sembrò rispondere, pur con otto anni di ritardo, all’appello del manifesto Russell-Einstein, ma altre tensioni si stavano addensando. Proprio nel 1963 cominciava la sciagurata guerra del Vietnam; dapprima come intervento americano di sostegno al governo corrotto anticomunista del Vietnam del Sud, negli ultimi mesi dell’amministrazione Kennedy (assassinato nel novembre 1963), poi in forma sempre più pesante, dopo il “provvidenziale” incidente del Golfo del Tonchino, del 1 agosto 1964, che offrì al governo americano la scusa per un crescente invio di truppe nel Vietnam. Ebbe così inizio la lunga catena di morti militari e soprattutto civili nel lungo Apocalisse provocato da armi devastanti anche per l’ambiente: il napalm, la benzina gelificata che si infiltrava anche nei rifugi più riposti, i bombardamenti aerei su larga scala, i diserbanti lanciati a migliaia di tonnellate per distruggere la vegetazione in cui si rifugiavano i partigiani Vietcong e per distruggere i campi di riso della poverissima popolazione locale, per togliere qualsiasi rifornimento alimentare ai partigiani.

Diserbanti che restano persistenti nel terreno, fabbricati con materie prime grezze, non purificate e ancora contaminate di diossina, la prima volta che questa terribile sostanza cancerogena e tossica si affaccia nell’ambiente, suscitando l’indignazione di fasce sempre più vaste della popolazione anche nei paesi industriali, gettando le basi di quello che sarebbe stato chiamati “il sessantotto”; anzi è in questa serie di eventi che nasce la vera contestazione ecologica moderna, la breve primavera dell’ecologia (la prima grande mobilitazione americana e europea fu nella Giornata della Terra il 20 aprile 1970).

Ormai anziano (sarebbe morto tre anni dopo a 98 anni) è ancora Russell nel 1966 a scrivere sui ”Crimini di guerra nel Vietnam”, l’appello che diede l’avvio del Tribunale contro i crimini di guerra che porta ancora il suo nome.

E’ stato importante ricordare oggi, nel 2007, Betrand Russell perché i crimini, di guerra e di pace, contro gli esseri umani e contro la natura, continuano senza che nessuno più si indigni, al di là di generiche proteste o, per quanto riguarda l’ecologia, al di là di un diffuso chiacchiericcio. Si affaccerà, un giorno, un altro Russell ?

mercoledì 22 luglio 2009

Furore

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 21 luglio 2009

Attenti al “Furore” dei poveri disperati

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Esattamente settant’anni fa, nel 1939, appariva, come romanzo ecologico e politico, “Furore”, dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel 1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra l’altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane.

Il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento, nell’Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio ecologico; la coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo esposto all’erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una “scodella di polvere”. Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una volta emigranti.

Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso ”caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri.

Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata da F.D.Roosevelt (1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di disordini.

Il libro “Furore” finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto.

“Furore” è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli.Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi:”muoiono di fame perché noi si possa mangiare”, oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro, lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.

Come nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi con odio, ai viaggi disperati dalle terre d’origine all’Italia, lascia marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero --- ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di stato --- e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua; solo poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa di “sicurezza” per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa, l’attuale maggioranza parlamentare respinge gli immigrati più indifesi, li rimanda alla loro miseria.

Eppure non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta, il “Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS, col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità. San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che “alcuni praticando l’ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Centinaia di migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il sedere.

Ma “Furore” è anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere un’Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell, capace di praticare l’accoglienza e assicurare giusti salari e dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera, come ha raccontato Steinbeck, furore.

venerdì 17 luglio 2009

SM 1447 --- Il Sole come amico

Giorgio Nebbia

--- Il Sole non è pericoloso, se non per le scottature della pelle ---

Il testo che segue è la rielaborazione e l'aggiornamento della oonferenza tenuta 1l 14 settembre 1989 nell'ambito dei "Colloqui di Dobbiaco 1989"

Nella prolusione all'anno accademico 1903-1904 dell'Università di Bologna, Giacomo Ciamician, professore di chimica in quella Università, disse: "Il problema dell'impiego dell'energia raggiante del Sole si impone e s'imporrà anche maggiormante in seguito. Quando un tale sogno fosse realizzato, le industrie sarebbero ricondotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrrebbero lavoro colla forza della luce del giorno, che non costa niente e non paga tasse !". E, vorrei aggiungere, non ha padrone ! Pochi anni dopo, nel 1912, in una conferenza tenuta negli Stati Uniti, lo stesso professore affermava: "Se la nostra nera e nervosa civiltà, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltà più quieta, basata sull'utilizzazione dell'energia solare, non ne verrà certo un danno al progresso e alla felicità umana !".

Quando sono state pronunciate queste parole il consumo totale mondiale annuo di energia era di poco più di un miliardo di tonnellate equivalenti di petrolio (circa 45 esajoule); esso era salito a circa 2 miliardi di tep/anno (circa 90 EJ/anno) nel 1950 ed è oggi, nel 2008, di 11 miliardi di tep/anno (circa 470 EJ/anno).

L'odierno consumo di energia --- e la produzione e il consumo delle macchine che divorano questa energia e delle merci fabbricate trasformando le risorse naturali con questa energia --- sono accompagnati da conseguenze che si riconoscono non più soltanto a livello locale --- la "nera e nervosa civiltà" --- ma che si fanno sentire a livello planetario.

Le riserve di fonti di energia, di minerali, di foreste, la perdita di fertilità delle terre coltivabili, l'inquinamento dell'aria e delle acque, inducono a chiederci se è possibile continuare su questa strada senza compromettere le condizioni di vita e di salute delle generazioni future. Sempre più spesso ci si interroga sulla possibilità di realizzare una società con uno sviluppo umano capace di soddisfare i bisogni di alimenti, abitazioni, energia, beni materiali, ma anche salute, libertà, dignità, indipendenza, bellezza, della nostra generazione attraverso un uso delle risorse naturali --- minerali, combustibili fossili, acqua, foreste, terreno coltivabile, ecc. --- che lasci alle generazioni future condizioni tali da assicurare loro una vita dignitosa e soddisfacente.

Le attuali tendenze dei consumi di risorse naturali sono tali da far pensare che le generazioni future dovranno far fronte ad un impoverimento dei "beni ambientali" e addirittura a disastri ecologici di dimensioni non immaginabili. Al fianco delle possibili crisi ambientali se ne prospettano altre, di carattere politico e sociale, dovute alla maniera ineguale e ingiusta con cui l'energia è usata nel mondo. Circa 3000 milioni di terrestri consumano circa 8 miliardi di tep/anno e ai restanti circa 3700 milioni di abitanti della Terra rimangono a disposizione circa 3 miliardi di tep/anno.

Sembra quindi abbastanza ragionevole che i paesi che finora hanno avuto a disposizione pochissima energia reclamino una proporzione maggiore dell'energia consumata complessivamente nel mondo. E' possibile tracciare vari scenari di tale più giusta distribuzione, ma tutti inevitabilmente portano ad un aumento dei consumi totali di energia attraverso l'uso di crescenti quantità di combustibili fossili. Allo stato attuale delle conoscenze l'energia nucleare non solo non è destinata a giocare un ruolo importante nel futuro energetico, ma è destinata ad un inarrestabile declino, e già così lascia una drammatica eredità di scorie e residui radioattivi con cui dovranno fare i conti le generazioni future.

Ma il consumo di combustibili fossili produce gravi effetti ambientali, in parte locali (inquinamento dovuto a varie sostanze nocive, piogge acide con danni alla salute e alla vegetazione, inquinamento termico, ecc.), in parte planetari, soprattutto mutamenti climatici dovuti all'aumento della concentrazione dell'anidride carbonica atmosferica ("effetto serra"). Già al livello degli attuali (2008) consumi di "appena" 11 miliardi di tep/anno vengono immessi ogni anno nell'atmosfera circa 25 miliardi di tonnellate di anidride carbonica; anche considerando i meccanismi di autodepurazione dell'atmosfera si osserva un aumento della concentrazione dell'anidride carbonica atmosferica di oltre due parti per milione in volume all'anno: da circa 315 a 385 parti per milione in volume (micromoli per mole) nel periodo dal 1958 al 2008. Come è noto, un ulteriore aumento di questa pur piccolissima concentrazione dell'anidride carbonica nell'atmosfera comporta una modificazione del delicato equilibrio fra energia solare che raggiunge la Terra e calore re-irraggiato dalla Terra, con conseguente aumento del calore trattenuto dentro l'atmosfera e della temperatura media della Terra.

Il pianeta non può sopportare le alterazioni climatiche ed ecologiche corrispondenti ad un sensibile aumento (per esempio ad un raddoppio) dell'uso di combustibili fossili. Tanto più che tale aumento porterebbe ad un rapido impoverimento delle riserve di idrocarburi con conseguenti crisi economiche e politiche e comunque in contrasto con gli interessi delle generazioni future. Ci sono già dei tentativi di far resuscitare l'energia nucleare come possibile mezzo per ottenere energia senza immissione di anidride carbonica nell'atmosfera, ma si è già ricordato che l'eredità di residui radioattivi che tale soluzione lascerebbe è in contrasto con un accattabile sviluppo umano futuro che tale può essere soltanto ricorrendo in maniera crescente e determinante alle fonti di energia rinnovabili che tutte dipendono dal Sole; una società del futuro deve essere almeno in gran parte solare. Dal punto di vista energetico e tecnico-scientifico l'avvento di una società solare è del tutto possibile, come mostrano poche cifre.

L'intensità della radiazione solare che arriva ogni anno sulla superficie della Terra equivale a circa 80.000 miliardi di tep, ed è quindi quasi ottomila volte superiore a quella consumata ogni anno nel mondo e superiore anche a tutte le riserve di carbone, petrolio, gas naturale e uranio messe insieme.

Di questi 80.000 miliardi di tep/anno circa 25.000 raggiungono le terre emerse e circa 55.000 raggiungono gli oceani. L'energia solare tiene in moto il grande ciclo dell'acqua: una parte dell'acqua in circolazione scorre sulle terre emerse e ritorna al mare; questo flusso ha un "contenuto" potenziale medio di circa 10 miliardi di tep/anno, anche se solo una parte limitata può essere ricuperata come energia idroelettrica e solo una parte minima (circa 0,15 miliardi di tep/anno, pari a circa 3000 miliardi di kilowattore/anno) e' attualmente in effetti ricuperata come tale. La seconda grande funzione "naturale" dell'energia solare è la "fabbricazione" per fotosintesi di biomassa vegetale: circa 100 miliardi di tonnellate/anno negli oceani e circa 100 miliardi di t/anno sulle terre emerse a spese di circa 400 miliardi di t/anno di anidride carbonica tratta dall'atmosfera; tale anidride carbonica quasi totalmente ritorna nell'atmosfera in breve tempo, nel corso del ciclo del carbonio.

Ai fini dell'utilizzazione "umana" dell'energia solare va notato subito che l'intensità della radiazione solare è maggiore nei paesi meno abitati e in quelli sottosviluppati che sarebbero quindi favoriti da un crescente ricorso a questa fonte di energia: una società solare contribuirebbe quindi a ristabilire una forma di giustizia energetica fra i diversi paesi della Terra. Come affermò già nel 1912, nella conferenza già ricordata, il prof. Giacomo Ciamician dell'Università di Bologna, "i paesi tropicali ospiterebbero di nuovo la civiltà che in questo modo tornerebbe ai suoi luoghi di origine".

Immaginiamo di progettare una società tutta solare con gli attuali consumi di energia. Calcolando una intensità media della radiazione solare di circa 100.000 tep/anno per km2, l'attuale consumo globale di energia equivale all'energia solare raccolta da una superficie di circa 100.000 km2. La superficie effettiva di raccolta dovrebbe essere almeno dieci volte superiore perché l'efficienza di trasformazione di molti dispositivi solari è abbastanza basso. A prima vista si tratta di superfici enormi, ma non è così.

Prendiamo il caso dell'Italia, con la sua superficie di 300.000 km2. Il fabbisogno energetico italiano attuale (2008), poco più di 180 milioni di tep/anno, corrisponde all'energia solare che raggiunge circa 1800 km2. La superficie di raccolta, calcolando una resa di trasformazione del 10 %, dovrebbe essere circa 18.000 km2; la sola superficie delle terre coltivate in passato e ora abbandonate ammonta a circa 4000 km2. Per ottenere da cellule fotovoltaiche tutta l'elettricità usata attualmente (2008) in Italia (circa 300 miliardi di kilowattore/anno, di cui però 40 di origine idroelettrica) occorrerebbero circa 3000 km2 di campi di fotocelle. Non si tratta di superfici enormi neanche per un paese industrializzato e ad alta densità di popolazione come l'Italia. Più in generale si vede che esistono sul pianeta ampi spazi disabitati, con alto irraggiamento solare, che potrebbero essere utilizzati per la trasformazione della radiazione solare nelle forme di energia utili per fini umani e trasportabile nelle zone di utilizzazione.

La radiazione solare, e le fonti di energia da essa derivate, si prestano a fornire energia in tutte le forme a cui siamo abituati: si può ottenere calore a bassa, media e alta temperatura direttamente dal Sole; con questo calore è possibile scaldare l'acqua, le abitazioni, è possibile azionare frigoriferi e condizionatori d'aria, è possibile distillare l'acqua di mare per ottenere acqua dolce, con un contributo decisivo, così, del Sole alla sconfitta della sete che affligge molte zone tropicali e equatoriali costiere.

Ancora l'energia solare, mettendo in moto il ciclo dell'acqua e scaldando diversamente le varie parti del pianeta, crea le condizioni per cui è possibile ottenere energia meccanica e elettrica utilizzando lo scorrere delle acque sulla superficie terrestre; o utilizzando le differenze di temperatura fra gli strati superficiali caldi e quelli profondi freddi dei mari tropicali; o utilizzando la forza del vento o il conseguente moto ondoso, anch'essi alimentati dalle differenze di temperatura provocate dal Sole sulle varie parti della Terra.

E' possibile con i sistemi fotovoltaici ottenere energia elettrica direttamente dalla radiazione solare; è possibile trasformare l'energia elettrica di origine solare in altre forme, per esempio in idrogeno utilizzabile come combustibile o come materia prima per prodotti chimici. La radiazione solare, attraverso la fotosintesi, produce nella biomassa sostanze chimiche utili come materie prime o carburanti.

La letteratura su queste utilizzazioni dell'energia solare è sterminata; molte invenzioni risalgono a decenni fa e vanno dissepolte dall'oblio e sperimentate di nuovo alla luce dei progressi nei materiali e nelle tecniche. Se il Sole è davvero il nostro grande amico e alleato, i nemici della transizione stanno nella pigrizia delle idee correnti. L'energia solare ha comunque vari limiti; è distribuita irregolarmente nelle varie parti della Terra, nella varie parti del giorno e dell'anno, è molto diluita rispetto alla concentrazione delle attuali società industriali. Ma proprio qui sta anche la sua forza: è ormai chiaro che molti squilibri ecologici derivano proprio dalla concentrazione in spazi ristretti delle attività umane, dal superamento violento della "carrying capacity" di molti territori, per cui una società solare comporta una ridistribuzione e diffusione delle attività umane, un uso più razionale dei grandi spazi che pure il pianeta Terra ancora offre.

La più facile fra le forme di utilizzazione dell'energia solare è sotto forma di calore e la produzione di calore col Sole è stata la prima e la più sperimentata applicazione. Una piastra metallica di colore nero, coperta con una lastra di vetro ed esposta al Sole raccoglie la parte visibile della radiazione solare e la trasforma in radiazione infrarossa che resta "intrappolata" al di sotto del vetro, sulla piastra. Questo "effetto serra" consente di portare la piastra, d'estate, a temperatura fino a 80 o 90 gradi Celsius; con particolari accorgimenti è possibile scaldare un collettore solare anche a temperatura un po' superiore a 100 gradi Celsius. Se il calore della piastra nera viene trasferito ad una massa di acqua, che, per esempio, viene fatta circolare entro tubi appoggiati sulla piastra stessa, d'estate è possibile, con ogni metro quadrato di superficie del collettore solare, scaldare 100 litri di acqua da 20 a 45 gradi, oppure 50 litri di acqua da 20 a 70 gradi Celsius. D'inverno il riscaldamento ottenibile è molto più modesto.

Per il riscaldamento dell'aria all'interno degli edifici piu' che i sistemi "attivi" come quelli basati su collettori solari, si prestano bene i sistemi "passivi" realizzati progettando gli edifici in modo da massimizzare la quantita' di radiazione solare che, anche d'inverno, entra nell'edificio, facendola eventualmente assorbire da speciali materiali capaci di immagazzinare calore anche a bassa temperatura. Una societa' solare dovrà inventare nuovi modi di progettazione degli edifici; con una appropriata espoisizione al Sole, con la creazione di spazi esposti al Sole e di spazi in ombra, è possibile ottenere spazi ventilati d'estate e caldi d'inverno, è possibile migliorare molto l'illuminazione dei locali. Gli alti sprechi di elettricita' per l'illuminazione e di elettricita' e di combustibili per il riscaldamento sono il risultato di una scadente progettazione. Il passaggio ad una società solare si traduce quindi anche in una diminuzione degli sprechi di energia, a parità di servizi, e comporta una revisione della diffusione nel territorio e della tipologia degli spazi di abitazione e di lavoro.

Con la radiazione solare è possibile trasformare per distillazione l'acqua di mare in acqua potabile. Milioni di kilometri di coste sono toccate dall'acqua dei mari e non hanno acqua dolce e in generale la situazione è tanto peggiore quanto più ci si trova nella fascia centrale della Terra dove è maggiore l'energia solare disponibile. I distillatori solari sono dispositivi relativamente semplici nei quali, in uno spazio chiuso coperto da lastre trasparenti, l'acqua marina viene esposta alla radiazione solare e evapora, condensandosi poi sotto forma di acqua priva di sali che viene recuperata. I distillatori solari hanno il vantaggio di utilizzare il calore solare a mano a mano che diventa disponibile e, nei dispositivi più efficienti, è possibile utilizzare il 50 per cento di tale calore per far evaporare l'acqua. Con un distillatore solare della superficie di un metro quadrato è possibile ottenere circa 1000 litri di acqua dolce all'anno.

Meno favorevole si presenta, invece, la possibilità di ottenere calore ad alta temperatura con sistemi a specchi per la concentrazione del calore solare; i tentativi di far funzionare delle centrali termoelettriche con collettori a specchi non hanno finora avuto molto successo; il Sole da il massimo di se se gli si fanno fare su scala umana le cose che sa già fare bene su larga scala e male si adatta alle dimensioni e ai caratteri delle macchine (per esempio le centrali termoelettriche) sviluppate per forme più concentrate di energia, come sono i combustibili fossili.

La maniera migliore per ottenere elettricità dal Sole è quella basata sulle celle fotovoltaiche che consentono di produrre da 100 a 150 kilowattore di elettricità all'anno per ogni metro quadrato di superficie di fotocelle esposte al Sole; ogni anno nel mondo aumenta il numero di impianti fotovoltaici e la loro potenza. Sono ormai normali centrali di decine di migliaia di kilowatt di potenza e il costo di tali centrali sta continuamente diminuendo, avvicinandosi al costo della centrali tradizionali. E, a differenza di queste ultime, le centrali fotovoltaiche solari non hanno bisogno di combustibili e non producono effetto serra o scorie radioattive.

La cosa comunque che il Sole sa già fare bene, senza macchine, su larga scala e con notevole efficienza, è "fabbricare" materia organica attraverso i processi di fotosintesi: la materia organica è costituita da zuccheri, amido, cellulosa, lignina, sostanze proteiche, grassi, eccetera, una straordinaria varietà di molecole su molte delle quali abbiamo ancora conoscenze appena approssimative e quasi nulle per quanto riguarda le potenziali applicazioni umane. La biomassa vegetale ha dentro di se, "incorporata", l'energia che il Sole ha messo a disposizione per la sua sintesi e tale energia restituisce bruciando.

Nei climi temperati si può stimare che da un ettaro di foresta o di terreno coltivato è possibile ricavare ogni anno l'equivalente di oltre 10 tep sotto forma di sostanza organica --- e senza alcuna macchina. Ciascuna delle sostanze presenti nella biomassa è utilizzabile direttamente come combustibile o trasformabile in fonti di energia commerciali (come gas o liquidi combustibili) e sempre più spesso si parla di coltivazioni o piantagione energetiche, progettate proprio per ottenere combustibili o materie alternative a quelle ricavate dal petrolio, anche se questi progetti vanno sottoposti ad attento scrutinio per verificarne la compatibilità ecologica.

Il vento rappresenta un'altra delle fonti di energia derivate dal Sole. L'energia solare riscalda le varie parti delle terre emerse e dei mari in una maniera disuguale che dipende dalle stagioni, dalla latitudine, dalle condizioni della superficie del terreno. Le masse d'aria che sovrastano territori a differenti temperature scorrono da una zona all'altra e generano i venti che si possono così considerare l'effetto meccanico del funzionamento di giganteschi collettori solari.

Un'elica o un sistema di pale rotanti esposti al vento si mettono in moto quando la velocita' del vento supera un valore minimo, in genere di una diecina di kilometri all'ora. Da questa velocità in avanti un motore a vento recupera l'energia del vento con un rendimento che dipende dalla superficie delle pale e dalla terza potenza della velocità del vento. I motori eolici possono andare da delicate macchine con eliche di grande diametro, a piccoli rotori fabbricabili con tecnologie intermedie. La forza del vento si manifesta non soltanto come moto di grandi masse d'aria, ma anche come moto di grandi masse d'acqua superficiali sotto forma di onde derivanti anche'esse, quindi, dall'energia solare.

La quantità di energia ricuperabile dipende dalla differenza di altezza fra la cresta e l'avvallamento dell'onda: nelle coste di fronte ai grandi oceani si ha un moto ondoso ampio e regolare la cui forza può essere "catturata" con vari dispositivi, alcuni dei quali stanno già superando il collaudo dell'applicazione industriale.

Si è già detto che il più grande collettore solare è costituito dagli oceani; in molte zone della Terra la radiazione solare scalda la superficie dei mari al punto da determinare una differenza di temperatura, che può arrivare anche a 20 gradi Celsius, fra gli strati superficiali caldi e quelli freddi profondi. Sono già stati costruiti dispositivi nei quali l'acqua fredda viene sollevata dagli strati profondi degli oceani e portata a contatto con l'acqua superficiale più calda in una macchina termica capace di trasformare, con un rendimento del 2 - 3 per cento, questo piccolo salto termico in energia elettrica.

Si è già detto che il calore solare fa evaporare e condensare ogni anno 500.000 miliardi di tonnellate di acqua dalla, e sulla, superficie dei mari e dalle terre emerse. 100.000 miliardi di tonnellate ricadono sulle terre emerse e circa 40.000 miliardi di metri cubi scorrono sulla superficie dei continenti nel loro ritorno al mare superando talvolta grandi dislivelli. Più volte si è pensato di recuperare una parte dell'energia meccanica incorporata nel moto delle acque sotto forma di energia idroelettrica, rinnovabile.

In genere i grandi fiumi e le grandi montagne sono nelle zone disabitate come le zone tropicali e equatoriali, la Groenlandia, l'Asia centrale. Una parte dell'energia di queste risorse potrebbe essere trasformata in energia elettrica che potrebbe essere trasportata nelle zone dove è maggiore la richiesta, o potrebbe essere trasformata per elettrolisi in idrogeno da trasportare con condotte, o che potrebbe essere utilizzata sul posto attraendo nuove attività dai paesi già oggi congestionati.

Anche in questo caso si puo' andare da grandi impianti al recupero dell'energia da piccoli salti di acqua con turbine idrauliche relativamente semplici. Finora spesso l'energia elettrica è stata recuperata con interventi sul territorio sconsiderati dal punto di vista ecologico. Le proposte dalla società solare presuppongono di utilizzare il Sole in maniera compatbile con i suoi caratteri e con le grandi leggi della natura.

Per la maggior parte dei problemi tecnico-scientifici associati alla transizione ad una società solare esiste già una risposta: altre possono essere pensate e inventate. Alle proposte di costruzione di una società solare viene obiettato sempre che il calore, o l'elettricità, o i combustibili ottenuti dal Sole e dalle fonti rinnovabili hanno un costo eccessivo rispetto a quello delle corrispondenti forme di energia ricavate dalle fonti non rinnovabili, scarse, esauribili. Secondo le regole della contabilità tradizionale ciò in genere è oggi vero, ma dipende dal fatto che nell'analisi dei costi delle fonti energetiche attuali non viene contabilizzato né il costo dell'inquinamento per la nostra generazione, né il costo, per le generazioni future, dell'impoverimento delle riserve di combustibili fossili.

Inoltre non si tiene conto che quanto maggiore sarà la diffusione delle tecnologie solari, quanto minore sarà, per effetto di scala, il loro costo e il costo dell'energia. L'avvento di una "neoeconomia" capace di integrare la contabilità monetaria con quella "naturale", mostrerà che esiste una convenienza anche in termini contabili a ricorrere alle fonti di energia derivate dal Sole.

La transizione ad una società solare, inoltre, è la grande occasione per razionalizzare macchinari, processi, mezzi di trasporto, strutture urbane, in modo che siano meno consumatori e distruttori di energia, a parità di servizio "umano" fornito.

Vi è una sola osservazione importante che deve guidare i progettisti della futura inevitabile società solare: proprio per il carattere diffuso e diluito della fonte di energia, le opere di raccolta dell'energia in forma utile su scala umana sono destinate ad avere superfici molto grandi e possono provocare anch'esse effetti ambientali negativi. Molti sostenitori dell'energia solare --- ed io stesso mi metto fra questi --- pensano alla possibilità di regolare il corso dei grandi fiumi con la creazione di laghi artificiali, dighe, centrali idroelettriche; tali opere, coerenti con il progetto solare, possono peraltro avere effetti disastrosi --- come è già avvenuto --- sugli equilibri delle foreste pluviali o delle valli montane se non sono progettate in maniera del tutto diversa da quella finora seguita per le grandi centrali idroelettriche.

E' possibile utilizzare la forza del moto ondoso con opere di captazione negli estuari o lungo le coste, ma tali opere possono provocare effetti erosivi e alterazioni ambientali quando la loro dimensione diventa molto grande ed estesa, come è richiesto dalla bassa densità dell'energia del moto ondoso per kilometro di costa. E' possibile trarre carburanti e materie prime per l'industria chimica dalla biomassa e da colture "energetiche", ma sarebbe un errore pensare a tali colture con i criteri della agricoltura intensiva, o a spese delle foreste, come si propone oggi; è possibile coltivare i deserti, dove è elevata la radiazione solare, ma occorre evitare gli effetti ecologici negativi che si sono già osservati nell'introduzione di monocolture "economiche" al margine dei deserti.

Distruggere le foreste per creare coltivazioni di canna da zucchero da cui trarre alcol etilico carburante sarebbe una vera follia ! Se da una parte occorre preparare l'avvento di una società basata sul crescente ricorso all'energia solare, attraverso perfezionamenti e innovazioni tecnico-scientifici sui processi e sui materiali, occorre far crescere una cultura ecologica e territoriale capace di verificare e anticipare i danni che alcuni di tali processi possono arrecare al pianeta nel suo complesso.

Anche nel caso del Sole e delle fonti energetiche non rinnovabili, il criterio della corsa al minore costo monetario o al successo tecnico-commerciale o consumistico può far cadere in trappole che vanificano il progetto guida che deve essere quello dello sviluppo umano.

Nel 1934, nel suo libro "Tecnica e cultura", Lewis Mumford ha descritto tre "ere" della società umana. La prima durata molti secoli, era l'epoca eotecnica, nella quale lo sviluppo era basato sull'uso delle fonti energetiche e dei materiali da costruzione offerti dalla natura: il legno, il moto delle acque, la forza del vento. Nel corso del 1600-1700 si è affermata una società paleotecnica --- estesa fino al suo, e al nostro attuale, tempo --- di cui Mumford denunciava gli aspetti negativi, una società basata sulla rapina delle risorse non rinnovabili, sul carbone e sul petrolio, sui metalli, caratterizzata dalla bruttura e dalla sporcizia, l'"impero del disordine". Mumford auspicava l'avvento di una società neotecnica, diversa e nuova, caratterizzata da un ambiente pulito e non inquinato, da città più ordinate e meno violente, da un uso più razionale delle risorse naturali; la transizione dalla società paleotecnica a quella neotecnica sarebbe stato possibile attraverso l'utilizzazione delle fonti di energia naturali, rinnovabili e non inquinanti, come l'energia del Sole, del vento, delle acque, che avrebbero reso possibile anche un crescente ricorso all'energia elettrica. Tale sviluppo sarà possibile soltanto adottando nuovi rivoluzionari tipi e forme di nuove energie, di nuove merci, di nuovi consumi, di nuove città, di nuove regola economiche, secondo il progetto "neotecnico" di cui Mumford parlava, inascoltato, oltre mezzo secolo fa !

William Carothers (1896-1939) e il nylon

Giorgio Nebbia


Ho davanti una fotografia del 1940: in una strada centrale di New York un cordone di polizia tiene a bada una folla di persone. Appena otto anni prima, in piena crisi economica, la folla sarebbe stata costituita da disoccupati. Quel giorno del 1940 la folla premeva per entrare nei negozi in cui si vendevano le prime calze da donna fatte con una nuova miracolosa fibra sintetica, il nylon.

In otto anni il "nuovo corso" del presidente americano Roosevelt aveva ridato fiducia al paese, rimesso in moto l'economia, spinto l'industria e le università a nuove ricerche, invenzioni e produzioni. In questo clima, nei laboratori scientifici della società DuPont un giovane chimico fece due scoperte rivoluzionarie: la gomma sintetica clorurata, neoprene, e la prima fibra sintetica poliammidica, il nylon.

Purtroppo l'inventore, William Carothers, nato nel 1896, non era riuscito a vedere il successo del suo lavoro; si era infatti suicidato nell'aprile del 1937.

La scoperta del nylon ha alcuni aspetti straordinari: già nei decenni precedenti erano comparse sul mercato delle fibre artificiali, costituite da cellulosa rigenerata o da derivati della cellulosa (i vari tipi di "raion") o da proteine rigenerate. Negli anni trenta era comparsa qualche fibra sintetica, ma di scadente qualità. Carothers abbe l'idea di preparare sinteticamente una fibra che avesse una struttura chimica simile a quella delle proteine che costituiscono la seta e la lana.

Nel 1935 Carothers riuscì, dopo lunghe ricerche teoriche e fondamentali e innumerevoli tentativi, a far combinare uno speciale acido, l'acido adipico, con una speciale ammina, l'esametilendiammina, in modo da ottenere una poliammide con legami simili a quelli che si trovano, appunto, nelle proteine naturali.

La nuova fibra si rivelò una sostanza fuori del comune: aveva la leggerezza della seta e la resistenza dell'acciaio. A differenza di quanto avviene nelle fibre naturali, il cui diametro è sempre uguale, regolato dalla funzione biologica del baco da seta o dalla formazione dei peli nelle pecore, la nuova fibra poteva essere preparata con diametri variabili a piacere: si potevano ottenere fili sottilissimi ben adatti per la fabbricazione di calze da donna, fino a fili più grossi adatti come setole per gli spazzolini da denti o per la produzione di reti o addirittura di cordami.

Il 27 ottobre 1938 la DuPont annunciò la scoperta del nylon, la fibra "fabbricata da carbone, aria e acqua", presentata poi all'esposizione universale di New York del 1939. Poco dopo arrivarono nei negozi le prime calze da donna di nylon, sottili e trasparenti e resistenti alle smagliature, tanto facili e fastidiose nelle calze di seta. L'entusiasmo dei consumatori fu così grande che il nylon diede un contributo anche alla ripresa dell'economia americana.

Il nylon, una delle meraviglie del secolo, scomparve però presto dai negozi: era cominciata la seconda guerra mondiale e tutto il nylon prodotto fu impiegato a fini militari, per realizzare le corde e le calotte dei paracadute, i traini degli alianti che permisero lo sbarco delle truppe anglo-americane in Europa, i cordami delle navi e infiniti altri oggetti. Finita la guerra, ancora una volta il ritorno delle calze di nylon nei negozi fu un segnale della pace e della ripresa della vita.

Straordinaria come quella del nylon fu la storia del suo inventore: diplomato in ragioneria, Carothers si laureò e ottenne un dottorato in chimica nel 1924; insegnò in varie università e nel 1928 gli fu offerto di entrare nell'industria DuPont. Carothers accettò solo a condizione di poter condurre ricerche di base in piena indipendenza e libertà.

Il patto andò bene soprattutto alla DuPont perché le ricerche di Carothers, ancora oggi fondamentali nel campo delle macromolecole, portarono ben presto alla scoperta del neoprene e poi del nylon, inventato nel 1934 e brevettato nel 1936. Nonostante gli onori e i riconoscimenti ricevuti Carothers era sempre scontento e depresso ed ebbe una vita sentimentale travagliata.

A parte la fine prematura del protagonista, la vicenda scientifica di Carothers e delle sue scoperte offre un piccolo spaccato di un tempo di grandi speranze, di coraggio, di voglia di scoprire i segreti della natura e di lungimiranza e successo imprenditoriale. Che di queste doti ci sia bisogno anche oggi ?

giovedì 16 luglio 2009

Cinema, chimica e ambiente

Chimica News, n. 21, p 28-29 (febbraio 2008), in Inquinamento, 50, (101), febbraio 2008

Giorgio Nebbia  nebbia@quipo.it

Se siete un chimico (o una chimica) e se ammirate Julia Roberts, la brava e bella interprete di “Pretty woman”, non vi siete di certo lasciati scappare l’altra interpretazione, della stessa attrice, nel film “Erin Brockovich”, diretto nel 2000 da Steven Soderbergh, premio Oscar per la Roberts. Il film racconta la storia vera di Erin Brockovich, una impiegatuccia di un piccolo studio legale della California, che da sola condusse (e vinse) una battaglia contro la potente industria Pacific Gas & Electric, PG&E, responsabile di aver versato nel sottosuolo delle soluzioni di cromo esavalente, tossico e cancerogeno, usato come antiruggine nella centrale di compressione del gas, e di aver inquinato le falde idriche da cui traevano l’acqua potabile gli abitanti del paesino di Hinkley.

Nessun sito per nessuna centrale nucleare

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 10 giugno 2008

Giorgio Nebbia

La scelta di una località adatta per “ospitare” una centrale nucleare presuppone alcune conoscenze: prima di tutto occorre sapere quante centrali e di quale tipo si prevede la costruzione; quelle cosiddette “di nuova generazione”, cioè con maggiore sicurezza e minore inquinamento, disponibili in commercio sono varie: non se ne acquista una come si sceglierebbe una automobile.

Le centrali nucleari cosiddette “di terza generazione” (EPR) hanno una potenza di circa 1600 megawatt ciascuna (le quattro a carbone di Cerano, vicino Brindisi, hanno una potenza totale di circa 2600 megawatt): ne esistono due, una finlandese ad Olkiluoto, a metà del suo cammino costruttivo, una in Francia a Flamanville, che dovrebbe essere completata entro alcuni anni.

Si tratta di centrali che producono elettricità col calore che si libera in seguito alla fissione, mediante urto di neutroni, rallentati per passaggio attraverso acqua, dei nuclei di uranio-235 con formazione di vari sottoprodotti fra cui plutonio e numerosi nuclei più piccoli, tutti radioattivi. Il calore che si libera viene trasferito ad una massa di acqua sotto pressione a circa 150 atmosfere e circa 300 gradi che circola in un circuito “primario” di tubazioni, e viene poi trasferito ad altra acqua (circuito “secondario”) che si trasforma a sua volta in vapore e fa girare le turbine del generatore di elettricità. Un flusso di acqua di raffreddamento (circa 70 metri cubi al secondo, quattro volte la portata media alla foce del fiume Ofanto) trasforma di nuovo il vapore in uscita dalle turbine in acqua liquida che torna nella caldaia del circuito secondario. In queste centrali l’acqua del circuito primario del reattore, radioattiva, non viene a contatto con l’acqua del circuito secondario.

I reattori di terza generazione scoppiano come quello di Chernobyl ? Quasi certamente no perché sono circondati da un doppio involucro di protezione di cemento armato e sono dotati di speciali accorgimenti di raccolta del fluido del reattore, nel caso si verificasse una frattura nella zona contenente la radioattività.

Dove potrebbero essere messi ? Già le poche cose dette indicano che il reattore, il circuito delle turbine, gli impianti di presa e di circolazione dell’acqua di raffreddamento, sono grosse strutture, del volume di circa un milione di metri cubi, che contengono una massa di cemento, acciaio e materiali vari di circa un milione di tonnellate. La centrale deve essere installata in una zona dove è disponibile molta acqua di raffreddamento (dato lo stato e la portata dei nostri fiumi, l’unica soluzione è data dall’uso dell’acqua di mare), su suolo geologicamente stabile e senza rischi di terremoti: i due reattori in costruzione, quello finlandese e quello francese, sono in due promontori di rocce granitiche in riva al mare.

L’eventuale centrale dovrebbe essere vicino ad un grande porto perché una parte dei macchinari deve essere importato via mare; il contenitore del reattore finlandese è stato costruito in Giappone. Qui comincia il lavoro degli analisti del territorio; si tratta di percorrere le coste italiane e vedere se si trova una zona adatta per una o per “il gruppo” di centrali annunciate. Ci sono naturalmente molti altri vincoli; ai tempi della precedente avventura nucleare italiana, dal 1975 al 1986, sono state fatte numerose indagini territoriali e fu elaborata una “carta dei siti” ritenuti idonei alla localizzazione delle (quattro) centrali nucleari allora previste, che erano più piccole e con minori vincoli di localizzazione. Allora le norme internazionali indicavano la necessità di avere, intorno alle centrali nucleari, una zona di rispetto del raggio di circa 15 chilometri nella quale non dovevano trovarsi città o paesi, strade di grande comunicazione e ferrovie, impianti industriali, depositi di esplosivi, installazioni militari.

La varie località proposte, in Piemonte, a San Benedetto Po in Lombardia, ad Avetrana in Puglia dovettero essere scartate dopo indagini territoriali più accurate, e l’idea di costruire centrali nucleari in Italia fu finalmente abbandonata dopo la catastrofe al reattore di Chernobyl.

Anche se la, o le, localizzazioni delle nuove centrali saranno coperte dal segreto di Stato, ci sarà pure un giorno in cui i cittadini di una qualche zona d’Italia --- il fiammifero acceso toccherà ancora una volta al Mezzogiorno ? --- vedranno arrivare sonde e geologi e ruspe e recinzioni e gli amministratori locali dovranno fare i conti con autorizzazioni e espropri. Sarà quello il tempo in cui gli abitanti delle zone interessate vorranno interrogarsi su quello che sta succedendo, sulla propria sicurezza futura, sul destino delle acque sotterranee e delle spiagge e coste.

Non sarà il segreto o il controllo militare a impedire ai cittadini di informarsi, di leggere le carte geologiche e la frequenza dei terremoti, le norme internazionali di sicurezza delle centrali. A parte il fatto che le centrali nucleari non producono energia a costi competitivi e che è irrisolto il problema dello smaltimento delle scorie radioattive, apparirà allora che non c’è neanche nessun posto in cui insediarle, nel rispetto dell’ambiente, in un paese come il nostro geologicamente fragile, esposto a terremoti e frane, con coste già sovraffollate, spiagge erose e mari inquinati.

SM 1848 -- Che cosa produrre ? -- 1995

Convegno: "Il giusto lavoro per un mondo giusto", Milano 8-9 luglio 1995
In: "Il giusto lavoro per un mondo giusto", Milano, Punto Rosso, n. 24, p. 137-145 (1996)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it


L'attuale crisi economica, di occupazione, anche morale, del nostro paese dipende in parte dall'aver perso la capacità, la comprensione, il gusto del lavoro e della produzione dei beni materiali. La borghesia ha ben compreso il potenziale eversivo della cultura del lavoro, della produzione, della classe lavoratrice, e dopo la crisi degli anni settanta del Novecento --- crisi di classe e crisi energetica e produttiva --- ha avuto buon gioco a inventare nuovi miti.

Il primo è stato il mito della società dell'immagine, reso possibile dall'uso massiccio della televisione. Più di recente il mito di una società virtuale ha diffuso l'impressione che non esista niente se non quello che viene elaborato e presentato sotto forma di immagine. Anzi che non si esista se non sotto forma di immagine, diffusa dalla televisione o dai grandi mezzi di comunicazione.

martedì 7 luglio 2009

L'energia osmotica - GZ 9-6-2009

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 9 giugno 2009

L’energia osmotica

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Noi ci affanniamo a cercare di ricavare energia dal petrolio o dal carbone, dal nucleo atomico o dal Sole, ma non ci accorgiamo che siamo circondati da altri grandissimi flussi di energia che poterebbero essere messi al servizio delle fabbriche e delle città. Guardate una pianta o un albero: al loro interno è continuamente in funzione una pompa che, in silenzio, senza macchine, preleva l’acqua dal terreno, attraverso le radici, e la solleva anche a molti metri di altezza: la pompa delle piante e dei vegetali funziona mediante “forze” naturali, in particolare attraverso i fenomeni di osmosi.

Le radici sono immerse nell’acqua, povera di sali, presente nel terreno; le cellule delle radici sono ricche di sostanze disciolte e, attraverso le loro pareti, l’acqua passa all’interno delle cellule e sale fino alle estremità delle foglie e dei rami e da qui evapora. Le pareti cellulari si comportano come membrane “semipermeabili” perché lasciano entrare l’acqua e non lasciano uscire le sostanze presenti all’interno delle cellule, un fenomeno descritto e chiamato osmosi dal botanico Henri Dutrochet (1776-1847). Il botanico tedesco Wilhelm Pfeffer (1845-1920) scoprì che la pressione osmotica, la forza che si manifesta ogni volta che un solvente entra in una soluzione attraverso una membrana semipermeabile, è proporzionale alla concentrazione della soluzione. Non è facile calcolare la quantità di acqua che, nei continenti, sale dal terreno alle estremità delle piante, ma una stima grossolana suggerisce che si tratta di oltre 10 mila miliardi di tonnellate all’anno. L’energia che solleva questa acqua si può stimare dell’ordine di 50-100 miliardi di chilowattora all’anno, corrispondente all’energia prodotta da dieci centrali nucleari.

Perché non utilizzare il fenomeno dell’osmosi per produrre energia commerciale ? Immaginiamo di disporre di una torre piena di acqua di mare, chiusa sul fondo da una membrana semipermeabile e immersa nell’acqua di un fiume. L’acqua dolce del fiume entrerebbe all’interno della torre, passando attraverso la membrana, e in questo modo costringerebbe l’acqua di mare a sollevarsi anche di alcune diecine di metri rispetto al livello originale, come spinta da una grande forza, la “pressione osmotica”. Dalla torre l’acqua di mare potrebbe essere fatta discendere di nuovo al livello originale; passando attraverso una turbina, produrrebbe, con lo stesso principio delle centrali idroelettriche, elettricità continuamente, senza emissione di anidride carbonica, pulita e rinnovabile. L’applicazione pratica comporta però varie difficoltà: la prima consiste nella preparazione di membrane semipermeabili.

Le prime membrane semipermeabili artificiali sono state inventate nel 1959 da Sidney Loeb (1917-2008), partendo da soluzioni di acetato di cellulosa in acetone; stendendo una tale soluzione su una superficie di vetro e lasciando evaporare il solvente, Loeb osservò che la parte esposta all’aria assumeva una struttura porosa, differente da quella continua che si formava a contatto col vetro. Queste nuove membrane asimmetriche risultarono semipermeabili. La prima applicazione fu alla dissalazione; se l’acqua di mare, salina, è separata da acqua pura da una membrana semipermeabile, e se è compressa contro la membrana ad una pressione superiore a quella osmotica (23 atmosfere per l’acqua di mare), l’acqua passa dall’acqua di mare all’acqua dolce e l’acqua marina viene così dissalata per “osmosi inversa”.

Col passare degli anni sono state fabbricate numerose membrane semipermeabili perfezionate, anche a base di poliammidi, tanto che i dissalatori a osmosi inversa sono ormai molto diffusi nel mondo. L’osmosi inversa viene utilizzata anche per separazioni nel campo dell’industria alimentare o del trattamento delle acque inquinate. Lo stesso Loeb nel 1973 suggerì che il fenomeno osmotico avrebbe potuto anche essere utilizzato per produrre delle pressioni utilizzabili come fonti di energia per centrali elettriche. Sono stati proposti vari tipi di centrali elettriche a energia osmotica; secondo uno di questi progetti l’acqua dolce priva o povera di sali, per esempio l’acqua di un fiume, viene fatta entrare in un lungo tubo al cui interno si trova la membrana semipermeabile: al di sopra di tale membrana si trova l’acqua di mare; dal flusso dell’acqua dolce attraverso la membrana l’acqua di mare aumenta di volume e viene così spinta all’esterno attraverso una turbina che genera elettricità. La centrale può essere installata in superficie o sotto il livello del mare.

Una centrale elettrica osmotica funziona sempre, comunque, ogni volta che si dispone di due soluzioni aventi differente salinità, separate da una membrana semipermeabile. Si potrebbe, per esempio, utilizzare come soluzione a bassa salinità la stessa acqua di mare e come soluzione concentrata quella delle acque madri di una salina, come quella di Margherita di Savoia. Una simile proposta è stata fatta per ottenere elettricità sfruttando l’elevata pressione osmotica dell’acqua di laghi salati come il Mar Morto, il Lago Salato negli Stati Uniti e altri laghi salati che esistono in Russia, sulle Ande e altrove. Il successo commerciale delle centrali osmotiche dipende anche dai perfezionamenti delle membrane semipermeabili: tutte le cellule viventi, vegetali e animali, hanno delle pareti semipermeabili, ma è difficile riprodurre in laboratorio e nell’industria la loro struttura chimica; c’è ancora molto da inventare anche per gli aspetti meccanici, ma non c’è da scoraggiarsi.

Il potenziale mondiale di energia elettrica ottenibile con centrali osmotiche è grandissimo, dell’ordine di 1500 miliardi di chilowattore all’anno, un decimo di tutta l’elettricità prodotta nel mondo, e si tratta di energia sempre disponibile e non soggetta a fluttuazioni. Un impianto ad energia osmotica della superficie di un campo di calcio potrebbe fornire elettricità per 10.000 famiglie. I costi per ora sembrano ancora elevati ma non bisogna dimenticare che cinquant’anni fa nessuno poteva immaginare che con l’osmosi inversa si potesse produrre acqua dolce dal mare e oggi questi impianti dissetano milioni di persone nel mondo; le prime centrali elettriche osmotiche stanno per entrare in funzione e siamo appena all’inizio di un altro capitolo delle fonti di energia rinnovabili e non inquinanti.