venerdì 14 agosto 2009

Ritorneranno ?

Villaggio Globale, 11, (43), settembre 2008
http://www.vglobale.it/VG/Articoli.php?UID=2620&nuid=46&suid=243

Giorgio Nebbia


Il 22 maggio 2008 è una data storica. Un ministro del IV governo Berlusconi ha annunciato, davanti all’assemblea della Confindustria, che il governo italiano prevede la costruzione “di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione” capaci di “produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente”, la cui “prima pietra” dovrebbe essere posta entro il 2013.

E’ una storia già sentita: era il 1975, qualche mese dopo il primo aumento del prezzo del petrolio, la prima grande paura della scarsità di energia. Il 29 luglio 1975 venne presentato al CIPE, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, il documento RES(75)31, redatto dal Comitato Nazionale Energia Nucleare, intitolato “Programma Energetico Nazionale” (sarebbe poi stato indicato come PEN). Negli anni precedenti 1973-1974 l’ENEL, allora unico gestire dell’elettricità, aveva ordinato quattro centrali nucleari da 1000 megawatt ciascuna destinate due a un qualche posto nell’Alto Lazio (sarebbe poi stato Montalto di Castro) e due per il Molise (si era parlato di Campomarino vicino Termoli).

Per spiegare tale decisione il PEN presentava varie previsioni dei consumi di energia italiani. Per la copertura dei fabbisogni elettrici dal 1982 al 1985 il PEN prevedeva la entrata in servizio di nuovi impianti nucleari per una potenza da 13.000 a 19.000 megawatt (a seconda della tendenza dei consumi) in modo che la potenza nucleare in servizio nel 1985 avrebbe dovuto essere compresa fra un minimo di 20.400 e un massimo di 26.400 megawatt.

Il PEN prevedeva che nel quinquennio 1986-1990 entrassero in servizio altri nuovi impianti nucleari per una potenza compresa fra 26.000 e 36.000 megawatt. “La potenza degli impianti nucleari in sevizio nel 1990 --- prosegue il testo citato --- sarà pertanto compresa fra un minimo di 46.100 MW e un massimo di 62.100 MW”. “I vantaggi di costo esistenti a favore della produzione di un kWh di origine elettronucleare, rispetto ad un kWh di origine termoelettrica sono al momento attuale --- era scritto nello stesso PEN del 1975 --- innegabili e difficilmente essi potranno essere cancellati in futuro”.

Dove mettere tante centrali nucleari ? Niente paura, nel paragrafo 3.3.2 del PEN citato è scritto che l’ENEL era “pervenuto ad individuare le seguenti aree geografiche del Paese nelle quali le indagini preliminari hanno fornito indicazioni sulla esistenza di luoghi adatti alla installazione delle nuove centrali nucleari, oltre a quelle già previste per l’ubicazione delle quattro unità ordinate nel 1973-74 (Alto Lazio e Molise):
--- Arco Alpino Lombardo
--- Piemonte orientale
--- Costa Jonica (Basilicata)
--- Lombardia Orientale
--- Costa dell’Alto Tirreno (Toscana centrale)
--- Costa del Basso Tirreno (Campania)
--- Costa Marchigiana Meridionale o Abruzzo
--- Arco Alpino Piemontese
--- Costa dell’Alto Adriatico (Romagna settentrionale)
--- Costa del Medio Tirreno (Lazio meridionale)
--- Costa della Venezia Giulia
--- Costa meridionale della Puglia (Jonica o Adriatica)”.

Le procedure per le autorizzazioni erano state definite nel DPR 185 del 1964 e quelle per la localizzazione delle centrali nucleari erano fissate dalla Legge 393, approvata il 2 agosto 1975. Un lavoro a tambur battente: 29 luglio presentazione del PEN al CIPE, 2 agosto legge sulle localizzazioni, 23 dicembre approvazione del PEN da parte del CIPE.

Le cose non andarono però tanto lisce; ben presto apparve che le previsioni dei fabbisogni elettrici erano esagerate, che i soldi richiesti per costruire un così grande numero di centrali nucleari non c’erano, che molte località destinate ad ospitare le centrali nucleari si ribellarono alla violenza proposta al loro territorio, a cominciare dal Molise. Si era messa in moto, superando peraltro dure contestazioni, la centrale da 2000 megawatt di Montalto di Castro.

Ci son state molte altre sceneggiate intermedie; la proposta di costruire un impianto di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa, Coredif, alimentato da quattro centrali nucleari da 1000 megawatt ciascuna, da collocare in qualche posto, o a Pianosa o a San Pietro Vernotico, in Puglia, saltata prima che si cominciasse a parlarne. Qualcuno propose di costruire una centrale nucleare sulla Murgia, in Puglia, pompando l’acqua di raffreddamento dal mare. L’ENEL intervenne con un terzo del capitale nella costruzione del reattore “veloce” francese Superphenix, “raffreddato” a sodio metallico. L’Italia partecipava con il 25 % al capitale dell’impianto francese di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa Eurodif, in cambio del diritto di ottenere uranio arricchito. Qualcun altro pensava alla costruzione di una nave a propulsione nucleare e forse magari ad una bomba atomica.

Nello stesso tempo si moltiplicavano manifestazioni, petizioni, proteste e anche critiche tecnico-economiche al vecchio programma energetico. Cito, per tutte, la “dichiarazione” datata 27 marzo 1976 su cui Italia Nostra raccolse in tutta Italia alcune migliaia di firme fra cui quelle prestigiose di Giorgio Bassani, Elena Croce, Antonio Cederna, Adriano Bjuzzati Traverso (e anche da me).

“Di fronte ai programmi di sviluppo della produzione di energia nucleare adottati dalle pubbliche autorità i sottoscritti cittadini ritengono che si tratti di decisioni estremamente azzardate assunte senza le necessarie cautele e senza la cosciente partecipazione della popolazione e dichiarano quanto segue:

1. L'energia elettrica ottenuta per via nucleare non è né economica, né pulita, né sicura.

2. Le valutazioni della presunta convenienza economica sono state fatte sulla base di costi degli impianti non aggiornati che non tengono conto delle spese necessarie per la custodia e lo smaltimento dei residui radioattivi e degli impianti fuori uso ineliminabili.

3. La scelta nucleare proposta condanna ugualmente l' Italia ad una dipendenza, inevitabile in ogni grande processo produttivo, da capitali stranieri e da brevetti, forniture e tecnologia, detenuti da pochi gruppi monopolistici, con tutte le conseguenze politiche e che ne derivano; tale scelta crea, anzi, condizioni peggiori di quelle attuali di dipendenza da combustibili tradizionali che almeno sono intercambiabili fra loro e possono essere acquistati su mercati diversi.

4. La scelta nucleare implica altresì rischi di incidenti catastrofici di portata e scala imprevedibili, che possono essere determinati anche da sabotaggi: variazioni climatiche e alterazioni agli ecosistemi naturali, che possono derivare dal grave inquinamento termico; la produzione di crescenti quantità di sottoprodotti radioattivi altamente pericolosi e difficilmente conservabili in maniera sicura.

5. Alcuni di questi sottoprodotti radioattivi costituiscono la materia prima per le bombe atomiche cosicché la scelta nucleare contribuisce alla diffusione degli armamenti e alla instabilità internazionale contraria agli interessi della pace.

6. I problemi prioritari dell'occupazione non trovano alcuna soluzione con la semplice moltiplicazione dei consumi e con la produzione di grandi quantità di energia, che favorisce solo lo spreco e lo sviluppo di industrie ad alto impiego di capitale e di energia per addetto.

Tutti questi problemi sono tenuti nascosti nel programma energetico nazionale impedendo alla popolazione di assumere una chiara coscienza dei rischi, delle conseguenze e delle possibili alternative che sono connesse alla politica energetica in corso.

Pertanto, i sottoscritti chiedono che le ipotesi di sviluppo del consumo di energia vengano rivedute, tenendo conto delle maggiori possibilità di occupazione offerte da una politica di risparmio dell'energia e dopo aver chiarito come, cosa si intende produrre e per chi.

Domandano, infine, che venga sospesa l'approvazione del programma nucleare e che gli altissimi investimenti previsti per le centrali nucleari, ben più alti di quelli indicati all'opinione pubblica, vengano utilizzati in opere pubbliche ad alto impiego di mano d’opera, con priorità per i servizi collettivi relativi alla difesa del suolo e alla riforestazione, all'educazione, alla salute, alle abitazioni e vengano impiegati per ricerche dirette alla migliore utilizzazione e al risparmio dell'energia disponibile e all'impiego di fonti di energia alternativa.

In risposta a questo movimento la Commissione Industria della Camera, presieduta dall'on. Fortuna, avviò una indagine conoscitiva che durò dal novembre 1976 all'aprile 1977 e che, nel maggio 1977, produsse un documento destinato al governo e al CIPE.

La conclusione fu la decisione di costruire subito soltanto 12-13 centrali nucleari, invece di venti, e altre otto da avviare entro il 1985. Infine nel dicembre 1977 veniva approvato dal CIPE un secondo «programma energetico nazionale». Nel 1979 l’ENEA/Disp aveva pubblicato un documento denominato “Carta dei siti” che indicava le possibili zone in cui localizzare le centrali.

Arrivarono però eventi tempestosi; nel marzo 1979 ebbe luogo l’incidente al reattore americano di Three Mile Island; non morì nessuno (almeno per il momento) ma la favola della sicurezza delle centrali nucleari venne messa in discussione; il governo fu costretto a indire una indagine sulla sicurezza nucleare che espose i risultati in una grande conferenza a Venezia nel gennaio 1970. Apparve così che le norme internazionali sulla sicurezza nucleare erano più rigorose di quanto si pensasse e questo offrì sostegno agli oppositori delle centrali nucleari che nel frattempo si erano moltiplicati, non solo come associazioni ambientaliste, ma anche come popolazioni dei luoghi in cui era prevista la costruzione delle centrali.

Nel luglio 1981 il ministro dell’industria Pandolfi rese noto un terzo piano energetico nazionale. Gli obiettivi prevedevano che nel decennio degli anni ottanta entrasse a pieno in funzione la centrale di Caorso (850 megawatt), entrassero in funzione le due unità da 1000 megawatt ciascuna di Montalto di Castro, venissero costruite ed entrassero in funzione altre quattro unità da 1000 megawatt ciascuna.

Negli stessi anni l’Italia dovette ridurre dal 25 al 16,5 % la sua partecipazione all’impianto Eurodif e dovette svendere una parte dell’uranio arricchito per cui l’Italia si era già impegnata e di cui non aveva più bisogno in seguito al ridimensionamento delle prospettive iniziali.

Quanto alle zone in cui localizzare le altre dodici future centrali nucleari, previste come “unità standard”, di reattori ad acqua sotto pressione PWR Westinghouse, si legge nel PEN del 1981 che i siti possibili risultano:
--- Piemonte: centrale nucleare con due unità standard in una delle due aree già individuate lungo il corso del Po;
--- Lombardia: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nella Lombardia sud-orientale (sarebbero poi state Viadana e San Benedetto Po):
--- Veneto: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nel Veneto sud-orientale;
--- Toscana: centrale nucleare con due unità standard nell’Isola di Pianosa;
--- Campania: centrale nucleare con una unità standard lungo l’ultimo tratto del fiume Garigliano;
--- Puglia: centrale nucleare con due unità standard in una delle aree già individuate nel Salento (sarebbero state Avetrana e Carovigno);
--- Sicilia: centrale nucleare con una unità standard in una delle due aree già individuate nel Ragusano.

Il programma ebbe breve vita; il primo atto della commedia del nucleare in Italia si chiuse praticamente dopo la catastrofe al reattore nucleare di Chernobyl (aprile 1996) a cui fece seguito il referendum del novembre 1987 che fermava le costruzioni e chiedeva l’uscita dell’Italia dal reattore Superphenix.

A parte la chiusura delle vecchie centrali di Latina, di Trino Vercellese e del Garigliano, alla fine dell’avventura nucleare si aveva:
Caorso: centrale avviata nel 1981, fermata nel 1986; il combustibile irraggiato è depositato in una piscina;
Montalto di Castro: centrale ordinata nel 1973; avvio dei lavori nel 1988; sospesa la costruzione nel 1988; trasformata in una centrale termoelettrica a metano/olio combustibile
Quanto al reattore Superphenix non ci fu bisogno del referendum per uscirne. La produzione di elettricità era iniziata nel 1985; il reattore aveva incontrato vari incidenti nel 1990; e la centrale fu chiusa nel 1997, con la perdita netta dei soldi ENEL, cioè dei cittadini italiani, in tale impresa.

Quanto alle scorie radioattive che si stavano formando, i vari PEN citati consideravano il problema della loro sistemazione qualcosa da decidere in futuro. Oggi le scorie sono ancora in gran parte dove erano allora, con l’aggiunta dei materiali radioattivi provenienti dal graduale smantellamento delle vecchie centrali. Risultava insomma confermato quello che in tanti avevano detto: l’energia nucleare non è economica, non è sicura e non è pulita.

La passione per il nucleare è rimasta dormiente per tanti anni. “Finalmente” si è risvegliata “grazie” alla scoperta dell’effetto inquinante dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche a combustibili fossili e responsabile dei mutamenti climatici, e “grazie” all’aumento del prezzo del petrolio. Si arriva così alla svolta storica a cui facevo cenno all’inizio, con le stesse illusorie parole di allora: gruppo di centrali nucleari, promessa di grandi quantità di energia, promessa di basso costo dell’elettricità, rispetto dell’ambiente.

E’ il secondo atto della commedia del nucleare italiano. Di centrali cosiddette “di nuova generazione”, cioè con maggiore sicurezza e minore inquinamento, ce ne sono varie disponibili in commercio: peraltro non se ne acquista una come si sceglierebbe una automobile. Immagino che il governo pensi alle centrali nucleari cosiddette “di terza generazione” (EPR3) della potenza di circa 1600 megawatt. Ne esistono due, una finlandese ad Olkiluoto, a metà del suo cammino costruttivo, una in Francia a Flamanville, nel nord della Francia (in costruzione da qui al 2012 e oltre), con la partecipazione finanziaria del 12,5 % dell’Enel.

Si tratta di centrali ad acqua leggera funzionanti con acqua sotto pressione a ciclo uranio-plutonio, alimentate con uranio arricchito a circa il 5 % di uranio-235. Il calore che si libera dalla fissione dell’uranio-235 viene trasferito ad una massa di acqua sotto pressione a circa 150 atmosfere e circa 300 gradi che circola in un circuito “primario” di tubazioni, e viene poi trasferito ad altra acqua (circuito “secondario”) che si trasforma a sua volta in vapore e fa girare le turbine del generatore di elettricità.

Un flusso di acqua di raffreddamento (circa 70 metri cubi al secondo, quasi un fiume, di acqua marina che ritorna, scaldata, nel mare, da cui si deve produrre anche acqua distillata per dissalazione per l’alimentazione delle caldaie) trasforma di nuovo il vapore in uscita dalle turbine in acqua liquida che torna nella caldaia del circuito secondario. In queste centrali l’acqua del circuito primario del reattore, radioattiva, non viene a contatto con l’acqua del circuito secondario. Secondo quanto è noto, il reattore utilizzerà circa 30 tonnellate all’anno di uranio arricchito; il combustibile irraggiato estratto ogni anno conterrà plutonio (circa 300 kg all’anno) e altri elementi di attivazione radioattivi e i prodotti di fissione, circa 1000 kg all’anno, fra cui cesio, stronzio e altri, tutti radioattivi. La produzione di elettricità dovrebbe essere circa 10 milioni di megawattore all’anno (circa 10.000 GWh all’anno; la produzione italiana di elettricità è di circa 350.000 GWh/anno).

I reattori di nuova generazione scoppiano come quello di Chernobyl ? Molto probabilmente no perché sono circondati da un doppio involucro di protezione di cemento armato e sono dotati di speciali accorgimenti di raccolta del fluido del reattore, nel caso si verificasse una frattura nella zona contenente la radioattività.

Non voglio discutere la promessa di elettricità a costi competitivi: chiunque ha pratica di analisi dei costi di produzione di una merce, nel nostro caso l’elettricità, sa bene come si possano avere risultati diversissimi a seconda di come si calcolano i costi di impianto, la politica di ammortamento degli investimenti, i costi della materia prima; nel caso delle centrali il costo del minerale di uranio, dell’arricchimento, dell’energia utilizzata nella varie fasi, i costi dello smantellamento degli impianti, i fattori di utilizzazione, e questo per l’elettricità di origine nucleare rispetto a quella ottenuta da altre fonti, fossili o rinnovabili che siano. Con opportuni artifizi contabili il “costo” di una merce ottenuta con un processo può risultare inferiore o superiore al costo della stessa merce ottenuta con un altro processo.

Qui voglio considerare invece se la localizzazione, la costruzione e il funzionamento delle eventuali future centrali nucleari avverrà o no “nel rispetto dell’ambiente”. Sono circolate notizie su possibili “siti” in cui le centrali potrebbero essere costruite, con nomi presto smentiti, anzi con la precisazione che le relative notizie vere saranno coperte dal segreto di Stato ai sensi del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 aprile 208, entrato in vigore il 1 maggio.

La scelta di una località adatta per “ospitare” una centrale nucleare presuppone alcune conoscenze: prima di tutto occorre sapere quante centrali e di quale tipo si prevede la costruzione. Già le poche cose dette sulle centrali “di nuova generazione” indicano che il reattore, il circuito delle turbine, gli impianti di presa e di circolazione dell’acqua di raffreddamento, sono grosse strutture, del volume di circa un milione di metri cubi, che contengono una massa di cemento, acciaio e materiali vari di circa un milione di tonnellate, su una superficie di una ventina di ettari.

La centrale deve essere installata in una zona dove è disponibile molta acqua di raffreddamento (dato lo stato e la portata dei nostri fiumi, l’unica soluzione è data dall’uso dell’acqua di mare), su suolo geologicamente stabile e senza rischi di terremoti: i due reattori in costruzione, quello finlandese e quello francese, sono collocati in due promontori di rocce granitiche in riva al mare. Una eventuale centrale dovrebbe essere vicino ad un grande porto perché una parte dei macchinari deve essere importato via mare; il contenitore del reattore finlandese è stato costruito in Giappone.

Qui comincia il lavoro degli analisti del territorio; si tratta di percorrere le coste italiane e vedere se si trova una zona adatta per una o per “il gruppo” di centrali annunciate. Ci sono naturalmente molti altri fattori da considerare partendo dalla vecchia (1979) “carta dei siti” ritenuti idonei alla localizzazione delle centrali nucleari allora previste, che erano più piccole e con minori vincoli di localizzazione. Già allora, comunque, le norme internazionali indicavano la necessità di avere, intorno alle centrali nucleari, una zona di rispetto del raggio di circa 15 chilometri nella quale non dovevano trovarsi città o paesi, strade di grande comunicazione e ferrovie, impianti industriali, depositi di esplosivi, installazioni militari.

Anche se la, o le, localizzazioni delle nuove centrali saranno coperte dal segreto di Stato, ci sarà pure un giorno --- il governo ha dichiarato che i “siti” per le future centrali saranno individuati entro il 2008 --- in cui i cittadini di una qualche zona d’Italia vedranno arrivare sonde e geologi e ruspe e recinzioni e gli amministratori locali dovranno fare i conti con autorizzazioni e espropri. Sarà quello il tempo in cui gli abitanti delle zone interessate vorranno interrogarsi su quello che sta succedendo, sulla propria sicurezza futura, sul destino delle acque sotterranee e delle spiagge e coste. Non sarà il segreto o il controllo militare a impedire ai cittadini di informarsi, di leggere le carte geologiche e la frequenza dei terremoti, le norme internazionali di sicurezza delle centrali.

Un’ultima osservazione voglio fare sulla promessa compatibilità ambientale dell’energia nucleare, soprattutto in relazione alla sistemazione delle scorie nucleari, a cominciare dal “combustibile irraggiato”, le barre di uranio estratte dai reattori dopo uno o due anni di funzionamento e contenenti uranio-238, una parte residua di uranio-235, elementi transuranici e prodotti di fissione. Si tratta di materiali diversissimi chimicamente, con differenti tempi di dimezzamento (il tempo durante il quale perdono metà della radioattività originale), che vanno posti in depositi che vanno tenuti sotto controllo per mesi, o per anni e decenni o per migliaia di anni. La loro pericolosità per la vita varia a seconda della composizione chimica e della radioattività che a sua volta varia continuamente nel tempo. Il combustibile irraggiato deve restare per anni in adatte “piscine” nelle quali perde una parte della radioattività generando calore, per essere poi “ritrattate” per separare le varie componenti, le vere e proprie scorie, o sepolte per tempi lunghissimi.

Dove mettere le scorie radioattive esistenti, note e inventariate e quelle che continuamente si stanno formando ? La risposta ragionevole è: nessuno lo sa. In giacimenti scavati nel granito ? nelle miniere di sale abbandonate (ricordiamo la commedia della proposta governativa di depositare i rifiuti a Scanzano Ionico) ? in terreni argillosi ? in fondo al mare ? nello spazio interplanetario, lanciate da speciali missili ? Pochi problemi tecnico-scientifici hanno avuto risposte fantasiose e illusorie come quello dello smaltimento delle scorie nucleari.

Con le scorie radioattive dovremo convivere per tutta la vita e anzi la loro quantità tenderà a crescere e assumerà, col passare del tempo, anche nuovi caratteri. Possiamo seppellire le scorie radioattive in qualche deposito per il quale possiamo chiedere alle generazioni future una sorveglianza affidabile ? La risposta è “no”. Il grande fisico, pur fautore dell’energia nucleare, Alvin Weinberg, scrisse: “Noi nucleari proponiamo un patto col diavolo; possiamo fornire energia a condizione che le società future assicurino una stabilità politica e delle istituzioni quali mai si sono avute finora”. E, guardandosi intorno, di tali società non esistono certo oggi tracce nel mondo.

In quale maniera sarà possibile avvertire coloro che vivranno fra centinaia e migliaia di anni, accanto ad un deposito di scorie nucleari, che devono continuare a vigilare attentamente perché il materiale depositato non sia esposto a infiltrazioni di acqua, non venga a contatto con forme viventi ? Il plutonio-239 perde metà della propria radioattività ogni 24.000 anni e quindi è ancora radioattivo dopo 200.000 anni. Se si pensa ad una sepoltura che sia sicura e protetta anche solo fra diecimila anni --- un periodo nel quale possono nascere e scomparire interi imperi --- c’è da chiedersi in quale lingua e in quale modo si può mettere un avviso, all’ingresso dei depositi di scorie: “Attenzione: non avvicinatevi”, in quale lingua dovremmo scrivere il messaggio ? con quali segni ? e chi tramanderà la leggibilità di tale avvertimento ?

L’americano Sebeok, uno studioso della comunicazione, ha suggerito che occorrerebbe organizzare una “casta sacerdotale atomica”, di durata eterna, in grado e col compito di tramandarsi nel corso delle 300 generazioni che si susseguirebbero nei diecimila anni, la lingua e il significato di quel cartello apposto sul cimitero delle scorie radioattive e dei residui delle centrali e degli impianti contenenti materiali radioattivi. E poi su quale supporto l’eventuale messaggio custodito dai sacerdoti atomici può essere tramandato a tutti gli abitanti del pianeta per 300 generazioni ? Qualsiasi successo di qualsiasi tecnologia di sepoltura dei materiali radioattivi sembra impossibile e questo conferma la necessità di fermare la diffusione delle centrali e delle attività nucleari, anche considerando lo stretto legame fra nucleare commerciale e militare. A conferma cito per tutti un lungo articolo apparso, col titolo: “I rifiuti eterni (The forever waste)” apparso nel fascicolo del 5 maggio 2008 nella rivista Chemical and Engineering News, (http://pubs.acs.org/cen/coverstory/86/8618cover.html), il settimanale della Società Chimica Americana che non può certo essere tacciata di furore antinucleare o ecologista. La più avanzata proposta di “sepoltura eterna” delle scorie radioattive americane, nel ventre di Yucca Mountain, nel deserto del Nevada, è stata fermata e resterà sospesa per anni.

Vorrei concludere con una modesta considerazione ispirata agli eventi del primo atto dell’avventura nucleare e che affido a coloro che propongono --- e che si opporranno --- al secondo atto di tale avventura, appena iniziata. “Se” i soldi spesi negli anni 1973-1986 per il nucleare --- per la propaganda, per impianti che non sarebbero mai entrati in funzione, per disastri territoriali, per arginare i conflitti popolari --- fossero stati spesi per il potenziamento delle fonti rinnovabili, già mature nei primi anni settanta, per il risparmio energetico, la ristrutturazione produttiva, una nuova urbanistica attenta alla difesa del suolo --- proprio quello che dicevano Italia Nostra già nel 1976 e tanti altri in quegli anni settanta del Novecento --- saremmo oggi il paese più industrializzato e scientificamente avanzato d’Europa. Quante delusioni, quanto tempo e quanti soldi buttati al vento !

giovedì 13 agosto 2009

SM 2853a -- Russell "ecologo" -- 2007

Ovada --- 7-8 luglio 2007

Russell ‘ecologo’

Giorgio Nebbia


Se ci si chiede se Bertand Russell può essere definito “ecologo” nel senso che si da comunemente a questa parola, difensore degli animali o dei boschi, impegnato contro inceneritori o effetto serra, direi che l’aggettivo è inappropriato. Ma se si pensa a Russell come promotore delle idee in cui affondano le vere radici del movimento per i nuovi diritti degli esseri viventi e inanimati, del movimento per eliminare la violenza esercitata contro l’ambiente dalle attività umane, dalla produzione e dal consumo delle merci e in particolare dalle merci e macchine oscene per eccellenza, più antiecologiche, che sono le armi e le armi atomiche --- allora il termine è del tutto appropriato e il pacifismo di Russell è strettamente legato all’impegno di “far piace col pianeta”, secondo il titolo di un libro di Barry Commoner (1917-), altro “ecologo e pacifista”.

Bertrand Russell (1872-1970) è vissuto ed ha operato qualche decennio prima di Commoner e della “primavera dell’ecologia”, databile agli anni sessanta del Novecento. Russell, che tuttavia tale “primavera” ha preparato con i suoi scritti e la sua testimonianza, è stato un intellettuale che ha attraversato tutto il Novecento e alcune delle sue opere fondamentali (più vicine all’”ecologia”) sono state scritte nella prima metà del Novecento e in particolare nella stagione della grande crisi economica e del New Deal. Il suo “Freedom and organization”, noto da noi come “Storia delle idee del XIX secolo”, è del 1934 e il XIX secolo di cui parla presentava tutti i caratteri che sarebbero stati all’origine della crisi ecologica del Novecento, cioè i caratteri dell’industrializzazione selvaggia e della divinizzazione del consumismo.

Russell, da questo punto di vista, a mio parere, va letto insieme, fra l’altro, a “The theory of the leisure class” (1899, 1912) di Thorstein Veblen (1857-1929), a “Luxus und Kapistalismus”, del 1913, di Werner Sombart (1863-1941), insieme a ”Technics and civilization”, dello stesso 1934, di Lewis Mumford (1895-1990).

Un intellettuale del New Deal aveva davanti agli occhi le conseguenze della nascita e crescita della società industriale e della cultura “economica” del tempo. L’attacco sistematico e lo sfruttamento delle risorse naturali si erano manifestati in tutta la loro violenza con la prima rivoluzione industriale che, prendendo l’avvio da una serie di eventi di natura culturale e di scoperte tecnico-scientifiche, stava costruendo una nuova società, quella che Geddes e Mumford chiamarono paleotecnica, fondata sull’uso di nuovi materiali “economici”, come il ferro e il carbone. Le materie della società paleotecnica avevano consentito lo sviluppo dei processi di meccanizzazione applicati alle miniere, alle filature e tessiture, grazie all’importazione del cotone dalle colonie, i processi dell’industria chimica, grazie all’importazione del nitro dal Cile, della gomma dal Brasile, eccetera. La nuova maniera di produrre aveva rapidamente portato la fine della società artigiana e la nascita della società operaia e dell’imprenditore capitalistico.

Con la crescente importanza della macchina, infatti, le attività produttive non erano più basate sull’abilità del lavoratore, ma sul capitale che consentiva l’acquisto delle macchine; l’era paleotecnica era destinata a segnare profondamente la storia della umanità e della natura.

Un osservatore radicale non faceva fatica a riconoscere in tali “perfezionamenti” economici il moltiplicarsi delle morti nelle miniere, dei camini che gettavano fumi e acidi nell’ambiente, soprattutto sulle città e nei quartieri del proletariato che la fabbrica “voleva” accanto a se, portati via dai campi nell’illusoria speranza di migliori salari.

D’altra parte i perfezionamenti delle macchine furono possibili --- e furono determinanti ---per l’assurgere del consumo a ideale dell’uomo; partito dalle corti e dai cortigiani del 1700, questo ideale fu rapidamente assorbito dal ceto borghese. I beni erano rispettabili e desiderabili indipendentemente dalle necessità di vita che potevano soddisfare e le teorie filosofiche ed economiche della nuova era, formulate in base al successo economico, vennero espresse in termini sciali dagli utilitaristi del XIX secolo.

Libertà significava libertà dalle restrizioni agli investimenti privati, libertà di profitto e di accumulazione privata; gli apologeti di questo ordine, da Bernard Mandeville ad Adam Smith, affermavano che essa avrebbe prodotto la massima quantità possibile di benessere e felicità per l’intera comunità mentre in realtà era ispirata soltanto da egoismo, avidità e sete di potere, e determinava un crescente degrado dell’ambiente i cui effetti ricadevano principalmente sulle classi più deboli.

Bertrand Russell definisce impietosamente Bentham, Malthus, Ricardo, Mill, uomini piuttosto poco interessanti, privi del tutto della cosiddetta “visione”, prudenti razionali deducenti con cura, da premesse che erano abbondantemente false, conclusioni che erano in armonia con gli interessi della classe media.

Il risultato fu quello che Mumford chiama l’ “impero del disordine, la società della bruttura e della sporcizia, trascinatasi fino ai nostri giorni con qualche progresso rispetto a quella rappresentata dalla Coketown descritta da Dickens in “Tempi difficili”. Le due anime nere del romanzo, Thomas Gradgrind e Josiah Bounderby, rappresentano le figure tipiche della rivoluzione industriale vittoriana, rigidi datori di lavoro, il primo, la personificazione dell’ideale aggressivo del far soldi, il secondo. La città paleotecnica in cui i protagonisti si muovono --- appunto la Coketown di Dickens --- era il più orribile ambiente umano che il mondo avesse mai visto, mancava di sole, d’aria buona, di acqua pulita, di fognature, circondata dalle catapecchie dei nuovi immigrati.

Se parlavo prima di “qualche progresso” nell’ecologia urbana rispetto a Coketown o alla Chicago di “La giungla” di Upton Sinclair, intendevo riferirmi all’ecologia delle città abitate da mille milioni di terrestre del Nord del mondo, perché per altri quattro o cinque mila milioni di terrestri, nel Sud del mondo, le condizioni non sono molto migliorate, essendo il Nord industriale stato abile nel trasferire le nocività e lo squallore ai poveri del Sud del mondo.

In queste condizioni il lavoro non è più la condizione per trasformare la natura al servizio dell’uomo, ma la schiavitù a cui ci si sottopone per raccogliere quel po’ di denaro che consente un qualche accesso alla società dei consumi imposta come unico modo di essere dal capitalismo. Si capisce così il senso di quel graffiante libretto, del 1935, di Russell sull’elogio dell’ozio che riprendeva e continuava le motivazioni e le considerazioni che qualche decennio prima avevano indotto Lafargue, il genero di Marx, a scrivere un breve saggio sullo stesso tema.

Russell può bene essere compreso come padre intellettuale della contestazione ecologica se si considerano correttamente le vere promesse culturali dell’“ecologia” moderna. Tali premesse affondano, a mio modesto parere, nella critica della società capitalistica, appunto, e delle sue conseguenze culturali e nella critica della società dei consumi, del “negozio”, della frenesia del fare e del produrre e possedere merci, a cui si contrappone l’ozio, il fermarsi.

Ma agli anni della ripresa dalla crisi americana e mondiale altre tempeste seguirono: l’avvento dei fascismi, la guerra di Etiopia e di Spagna, la diffusione di armi e di aerei e l’impiego di aggressivi chimici su una scala quale mai si era vista prima, con il coinvolgimento della popolazione civile, la continua violazione dei patti che i paesi “civili” si erano pur dati alla fine del 1800. Guerra, nel XX secolo, significava anche devastazione di campi, di boschi e di fiumi, fame e sete. Una storia delle conseguenze ambientali delle guerre in tutto il Novecento è forse ancora da scrivere.

Contro alcune delle più vistose forme di violenza militare (e ecologica) troviamo ancora coinvolto il pacifista Russell. La fabbricazione della bomba atomica fu l’inizio della nuova ondata di violenza alla natura, di dimensioni tecnico-scientifiche, ma soprattutto culturali, enormi. La bomba atomica diede per la prima volta all’uomo la sensazione che le forse che potevano essere scatenate con la tecnica avevano dimensioni senza precedenti: le bombe atomiche potevano realizzare la distruzione dell’umanità a milioni di persone per volta e i residui radioattivi potevano disperdersi nell’intera biosfera raggiungendo livelli di pericolosità tali da compromettere la stessa sopravvivenza dell’umanità.

Con la bomba atomica forse per la prima volta si vide che l’inquinamento, in questo caso dovuto alla ricaduta e dispersione dei frammenti radioattivi che si formano durante le esplosioni nell’atmosfera, colpisce le zone vicine all’esplosione, ma anche le zone lontane e circola, attraverso l’atmosfera, per anni, nell’intera biosfera e viene assorbito da popolazioni anche lontane. Non solo. La fabbricazione dei materiali per le bombe nucleari, e anche quella del “combustibile” per i reattori “commerciali”, per gli atomi spacciati “per la pace”, comporta processi chimico-industriali che generano residui radioattivi che conservano la radioattività per decenni, secoli e millenni, che condannano le generazioni future lontane nel tempo a fare la guardia e a tenere sotto controllo depositi che non hanno voluto, da cui non hanno tratto alcun vantaggio “economico”.

Tutto questo ci appare chiaro oggi, ma già nei primi anni cinquanta del Novecento era noto ed evidente l’effetto che le “piccole” bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano fatto sulle due sventurate città giapponesi, ed era chiaro l’effetto devastante anche per l’ambiente e la salute, delle esplosioni sperimentali di bombe atomiche, centinaia di volte più potenti di quelle cadute sul Giappone, che si stavano svolgendo nel mondo da parte delle grandi potenze.
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Dopo le esplosioni delle prime bombe atomiche nel 1945 era sorta violenta la polemica sulla moralità delle nuove armi; tale polemica si fece ancor più accesa negli anni successivi quando gli esperimenti nucleari nell’atmosfera dimostrarono come l’aumento del livello di radioattività della biosfera stesse superando i limiti considerati di sicurezza.

Ci siamo dimenticati tutto ? L’esplosione della prima bomba atomica americana ad Eniwetok, nel 1949, della prima bomba atomica sovietica nel 1949, dell’altra bomba da un megaton, cinquanta volte più potente di quella di Hiroshima, ancora ad Eniwetok, il test Bravo a Bikini con la prima bomba termonucleare da 15 megaton, mille volte più potente di quella di Hiroshima, nel 1954, seguito nel 1955 dall’esplosione della prima bomba a idrogeno sovietica da 1,5 megaton ? Eventi denunciati senza tregua nella stampa e, fra l’altro, nel “Bulletin of the atomic scientists” che aveva iniziato le pubblicazioni proprio nel dicembre 1945.

E’ questa l’atmosfera in cui Russell sollecitò Einstein a scrivere l’appello alla cessazione della corsa atomica, firmato da vari scienziati come Joliot-Curie, Pauling, Rotblat. Sarebbe stata questa campagna, con motivi pacifisti, ma anche attenti al destino ecologico futuro dell’umanità, che ha portato nel 1963 alla firma del trattato che “almeno” vietata le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera e negli oceani --- ce ne erano stati già oltre mille --- anche se la Francia continuò fino ai primi anni settanta le sue esplosioni di bombe atomiche nell’atmosfera, anche se da allora ci sono stati altri mille test nucleari nel sottosuolo. Se i “tests” non continuano con la stessa frequenza come negli anni settanta e ottanta è solo perché oggi è possibile controllare la “buona qualità” delle oltre 25.000 bombe atomiche esistenti nel mondo con processi che non richiedono esplosioni vistose.

Il trattato per il divieto parziale delle esplosioni nucleari del 1963 sembrò rispondere, pur con otto anni di ritardo, all’appello del manifesto Russell-Einstein, ma altre tensioni si stavano addensando. Proprio nel 1963 cominciava la sciagurata guerra del Vietnam; dapprima come intervento americano di sostegno al governo corrotto anticomunista del Vietnam del Sud, negli ultimi mesi dell’amministrazione Kennedy (assassinato nel novembre 1963), poi in forma sempre più pesante, dopo il “provvidenziale” incidente del Golfo del Tonchino, del 1 agosto 1964, che offrì al governo americano la scusa per un crescente invio di truppe nel Vietnam. Ebbe così inizio la lunga catena di morti militari e soprattutto civili nel lungo Apocalisse provocato da armi devastanti anche per l’ambiente: il napalm, la benzina gelificata che si infiltrava anche nei rifugi più riposti, i bombardamenti aerei su larga scala, i diserbanti lanciati a migliaia di tonnellate per distruggere la vegetazione in cui si rifugiavano i partigiani Vietcong e per distruggere i campi di riso della poverissima popolazione locale, per togliere qualsiasi rifornimento alimentare ai partigiani.

Diserbanti che restano persistenti nel terreno, fabbricati con materie prime grezze, non purificate e ancora contaminate di diossina, la prima volta che questa terribile sostanza cancerogena e tossica si affaccia nell’ambiente, suscitando l’indignazione di fasce sempre più vaste della popolazione anche nei paesi industriali, gettando le basi di quello che sarebbe stato chiamati “il sessantotto”; anzi è in questa serie di eventi che nasce la vera contestazione ecologica moderna, la breve primavera dell’ecologia (la prima grande mobilitazione americana e europea fu nella Giornata della Terra il 20 aprile 1970).

Ormai anziano (sarebbe morto tre anni dopo a 98 anni) è ancora Russell nel 1966 a scrivere sui ”Crimini di guerra nel Vietnam”, l’appello che diede l’avvio del Tribunale contro i crimini di guerra che porta ancora il suo nome.

E’ stato importante ricordare oggi, nel 2007, Betrand Russell perché i crimini, di guerra e di pace, contro gli esseri umani e contro la natura, continuano senza che nessuno più si indigni, al di là di generiche proteste o, per quanto riguarda l’ecologia, al di là di un diffuso chiacchiericcio. Si affaccerà, un giorno, un altro Russell ?

mercoledì 12 agosto 2009

SM 1777 -- Georg Agricola (1494-1555)

In: "Innovazioni tecnologiche, qualità e ambiente. Atti XVI Congresso nazionale di Merceologia, Pavia", Pavia, Vol. 3, p. 279-294 (1994); anche: Natura e Montagna, 40, (3/4), 29-34 (dicembre 1994)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Georg Pawer o Bauer (latinizzato in Georgius Agricola), il grande studioso di tecnica e merceologia mineraria e metallurgica, fu un singolare figlio di un tempo turbolento e di una terra, la Sassonia, investita da una grande rivoluzione tecnico-scientifica e culturale.

Agricola nacque a Glauchau, nella Sassonia, il 24 marzo 1494, quando Colombo era appena tornato dal primo viaggio nel "nuovo" continente ed era di nuovo in viaggio per le Antille, ed aveva appena tre anni quando Vasco de Gama doppiò il Capo di Buona Speranza. Agricola aveva ventisei anni nel 1520 quando Cortes entrò a Città del Messico e Magellano si inoltrò nelle acque del Pacifico. Tre anni prima, quando Agricola stava completando gli studi nell'Università di Lipsia, nel 1517, Lutero (1483-1545) aveva affisso alle porte del duomo della vicina Wittenberg, le 95 "tesi" sul peccato, la penitenza, l'indulgenza e il purgatorio che mettevano in discussione l'autorità del papa romano e aprivano le porte alla Riforma "protestante", appunto.

SM 1882 -- I Nord e i Sud del mondo -- 1991

Prefazione a Liliana Cori, "Una terra buona per tutti", Bologna, Cospe, 1996, p. 11-21

I vari “Nord” e i vari “Sud” del mondo

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it


Questo articolo è stato scritto nel 1991, all’indomani della grande rivoluzione che ha visto la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la transizione dei paesi “ex-socialisti” ad un’economia “di mercato” con aggravamento dei problemi di approvvigionamento delle materie prime e di inquinamento, con aumento della popolazione mondiale, con crescente domanda di giustizia da parte dei paesi poveri e delle tensioni internazionali.

Gli eventi degli ultimi anni hanno posto il mondo davanti ad una trasformazione profonda dei rapporti geopolitici e quindi merceologici. Nonostante le oscillazioni dei mercati finanziari, che riflettono lotte interne economiche e politiche fra paesi industrializzati, si sta assistendo ad una più o meno rapida, ma continua espansione della produzione e dell'uso delle merci con conseguente crescente pressione sulle risorse naturali e sulle materie prime per lo più provenienti dal Sud del mondo.

Nonostante le ripetute affermazioni che si sta andando verso una società dematerializzata, verso una società dell'immagine e dei servizi, le merci, i prodotti materiali, continuano ad avere un ruolo centrale nei rapporti fra i popoli.

Solo per indicare un ordine di grandezza, i materiali che sono oggetti di commercio nel mondo ammontano a oltre 20 miliardi di tonnellate all'anno (al netto delle doppie contabilizzazioni): si tratta di carbone, petrolio, metano, cereali, semi oleosi, minerali, manufatti, materiali da costruzione, legname, gomma, prodotti zootecnici, eccetera. Queste merci sono coinvolte in un grande flusso di materia e di energia che comincia dalla natura, passa attraverso i processi di trasformazione e produzione e arriva ai processi di "consumo" (ma meglio sarebbe dire di "uso", per un tempo più o meno lungo) delle merci, e alla natura ritorna sotto forma di scorie e rifiuti gassosi, liquidi e solidi.

Il peso delle scorie che si generano in ciascuno dei passaggi di questa grande circolazione natura-merci-natura è addirittura superiore a quello delle merci oggetto di scambio (nella trasformazione e nell'uso delle merci va contabilizzato l'uso dell'ossigeno, "merce ambientale" gratuita che si ritrova per lo più come anidride carbonica alla fine di ciascun processo).

Complessivamente la quantità di materia associata alla circolazione delle merci ammonta, ogni anno, a oltre 40 miliardi di tonnellate, un valore che si può confrontare con quello della produttività primaria sulle terre emerse che è di circa 100 miliardi di tonnellate all'anno. Mi pare che si sia ben lontani da una società dematerializzata; anzi che la nostra società sia ancora e sempre piu' dominata dalle merci e dalla loro importanza.

Gran parte dei materiali coinvolti nella circolazione --- nella "storia naturale" --- delle merci è oggetto di interscambio fra Nord e Sud del mondo: dal Sud del mondo vengono molte fonti di energia, minerali, prodotti agricoli e forestali che vengono acquistati dal Nord del mondo; nel Nord del mondo viene prodotta gran parte dei manufatti e delle scorie che, a loro volta, in parte, sono riesportati nel Sud del mondo.

Alla luce di queste considerazioni si può forse ripensare la divisione fra "mondi", utilizzando un suggerimento che l'economista inglese Barbara Ward avanzò [in un celebre articolo: "First, second, third and fourth worlds", The Economist, 18 May 1974, p. 65-66, 69-70, 73], al tempo della prima crisi petrolifera e della sessione speciale dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (nel corso di tale sessione fu invocato un "nuovo ordine economico internazionale" che finora è ben lontano dalla realizzazione).

A ben guardare, lasciati alle spalle i "tre mondi" della vecchia tradizione (paesi capitalisti, paesi a economia pianificata, paesi sottosviluppati), siamo davvero oggi di fronte a quattro mondi legati e in conflitto fra loro.

Il primo mondo si può considerare quello dei paesi industrializzati che sono ricchi e spesso quasi autonomi quanto ad approvvigionamento delle materie prime di base: si tratta degli Stati Uniti, dell'ex Unione Sovietica, del Canada, dell'Australia. In questo momento Nord America e Russia, pur con profonde contraddizioni e, nel caso della Russia, difficoltà interne, rappresentano un potenziale unico grande impero che può trattare con tutti i paesi del mondo da una posizione di forza, rappresentata, appunto, dalla rilevante indipendenza dalle materie altrui.

Il secondo mondo è rappresentato dai paesi industriali poveri di materie prime, che dipendono dalle importazioni per conservare il proprio sviluppo. Si tratta dell'Europa occidentale e orientale e del Giappone. L'esperienza mostra che basta un temporaneo aumento del prezzo o anche della disponibilità di alcune materie strategiche (si pensi alle crisi petrolifere degli anni 1973-1980) per mettere in ginocchio l'economia di tali paesi.

Fra primo e secondo mondo possiamo calcolare una popolazione di circa 1200 milioni di persone che "consumano" circa il 70-80 % delle risorse naturali economiche prodotte dal pianeta e generano una corrispondente percentuale delle scorie prodotte nel mondo.

Il terzo mondo è costituito dai paesi arretrati che possiedono una o più materie strategiche: possiamo comprendere fra questi i paesi esportatori di petrolio, il Nord Africa che esporta fosfati, India e Egitto che esportano cotone, i paesi del Sud America che esportano prodotti agricoli e forestali. Fra questi paesi, la cui popolazione si può stimare, a seconda del criterio con cui vengono classificati e aggregati, di circa 2500-3000 milioni di persone, vanno inclusi i paesi che sono in grado di "vendere" lavoro a basso prezzo (paesi del Sud est asiatico) che vengono talvolta considerati in via di industrializzazione, ma che sono a loro volta completamente dipendenti dai capitali e dalle tecnologie dei paesi del primo e del secondo mondo.

Infine il quarto mondo è costituito dai paesi poveri e poverissimi, praticamente privi di materie prime da esportare, con un rapido tasso di aumento della popolazione e quindi con una forte pressione sul mercato internazionale del lavoro, con una potenziale grandissima domanda di merci e servizi.

Nel quadro degli scambi internazionali di merci va inserito anche il discorso della circolazione delle "merci negative", cioè delle scorie o dei prodotti tossici. Le norme più rigorose di difesa della salute e dell'ambiente adottate nei paesi industriali, per esempio dell'Unione Europea, spingono molti imprenditori a trasferire varie attività in paesi dove non solo si trova mano d'opera a basso prezzo, ma dove esistono leggi più permissive nei confronti dell'inquinamento. Addirittura esiste un fiorente commercio internazionale, dal Nord al Sud del mondo, di scorie e rifiuti.

Il caso dei pesticidi analizzato in questo libro è emblematico. Nel nome della salute, nei paesi del primo e del secondo mondo è vietato o limitato l'uso di pesticidi tossici e nocivi che vengono invece esportati nei paesi del Sud del mondo, con l'ipocrita promessa di far aumentare la produttività delle colture e col retro-pensiero di poter acquistare più materie agricole, forestali e zootecniche a basso prezzo, peraltro a spese della fertilità delle terre e dei pascoli.

Le organizzazioni delle Nazioni Unite richiedono che gli esportatori di pesticidi abbiano cura di avvertire gli importatori dei potenziali pericoli dell'uso di tali merci, ma le “raccomandazioni" si traducono spesso in finzioni giuridiche, con danni, per le popolazioni e gli ecosistemi del Sud del mondo, che occorrerà molto tempo per valutare appieno. Succede poi che una parte delle materie prodotte dal Sud del mondo venga importata, contaminata con gli stessi pesticidi, nello stesso Nord del mondo, col che si chiude il cerchio della natura e dei rapporti perversi generati dallo sfruttamento nel nome del profitto.

I quattro decenni passati sono stati caratterizzati da un crescente consumo di materie prime estratte dalla natura e da una crescente produzione di merci: le conseguenze si stanno osservando sotto forma di esaurimento di alcune riserve di risorse naturali strategiche, in alcuni paesi. La storia non è nuova: nel passato si è potuto assistere al rapido sfruttamento e poi al declino dello zolfo in Sicilia, nel secolo scorso "Sud del mondo" industriale europeo (a cui e' seguita la crescente estrazione di zolfo Frasch nel Nord America); dei giacimenti di nitrati nel Cile (a cui ha fatto seguito la fissazione artificiale dell'azoto atmosferico); delle foreste spontanee di gomma del Brasile (a cui ha fatto seguito l'invenzione di vari tipi di gomma sintetica), eccetera.

In ciascuno di questi casi il Nord del mondo, dopo avere sfruttato come ha potuto le risorse naturali del Sud del mondo, si e' reso autonomo, lasciando il Sud del mondo ancora più povero. Da qui innumerevoli storie di guerre e di instabilità politiche ed economiche. Oggi ci sono segni di esaurimento dei giacimenti di fosfati nelle isole Nauru, di petrolio nel Bahrein, di impoverimento della pescosità dei mari e della fertilità di crescenti estensioni di terre coltivate, eccetera.

Finora si è trovata una soluzione (altri giacimenti, altri processi, altri spazi per la pesca o la coltivazione agricola), ma la velocità dell'estrazione di materie dalla natura e di immissione delle scorie nell'ambiente è così elevata che si osservano sempre più spesso segni inequivocabili di alterazioni irreversibili degli equilibri ecologici planetari, segni di una situazione sempre più "insostenibile". Un esempio è offerto dall'aumento della concentrazione nell'atmosfera dell'anidride carbonica, immessa in ragione di 25 miliardi di tonnellate all'anno, e di altri gas che determinano modificazioni a lungo termine del clima planetario.

Una soluzione può essere cercata a tre livelli: (a) attraverso la modificazione della qualità delle merci prodotte e usate nel Nord del mondo in modo da far fronte alla scarsità di materie prime e di capacità ricettiva del pianeta nei confronti delle scorie; (b) attraverso la diminuzione dei consumi superflui nel Nord del mondo, compensata dalla produzione di merci progettate per soddisfare i bisogni essenziali dei paesi del Sud del mondo; (c) attraverso nuovi rapporti commerciali fra Nord e Sud del mondo.

La modificazione della qualità delle merci usate nel Nord del mondo comporta l'adozione di nuove scale del valore. Finora il “valore” delle merci è stato considerato soltanto quello esprimibile in unità monetarie, un indicatore che non dice niente sulla quantità di materia e di energia coinvolta nella circolazione, a cui si faceva cenno prima, natura-merci-natura.

Sono stati proposti altri indicatori fisici, "naturali" del valore, anche se la loro quantificazione è tutt'altro che facile. Per esempio si potrebbe pensare qualche indicatore del "costo in risorse naturali" delle merci; secondo tale criterio "vale" di più una merce che è prodotta con minore uso di risorse naturali scarse. A parità di altre condizioni, vale di più una merce prodotta riciclando carta o metalli già usati piuttosto che partendo da legno o minerali. In questa stessa direzione si pone la misura del "costo energetico" delle merci; "vale" di più una merce che, a parità di altre condizioni, richiede meno energia nelle fasi di produzione, trasporto, uso. Si comincia a parlare di un "costo ambientale" delle merci; "vale" di più una merce che, a parità di altre condizioni, comporta minore emissione di scorie e rifiuti nelle fasi, come al solito, di produzione, trasporto e uso.

Una delle possibili soluzioni al problema della scarsità consiste nella riprogettazione delle merci al fine di rendere minima la quantità di risorse naturali necessarie. Per esempio, la recente proposta di assegnare ad alcune merci una etichetta ecologica --- o “ecolabel” --- parte dal presupposto che si possa attribuire a ciascuna merce un valore che sarà tanto maggiore quanto minore e' il consumo di materie prime, di energia e l'effetto inquinante, nell'intero ciclo di vita della merce, o, come si suol dire con una immagine un po' macabra, dalla culla alla tomba.

Gli studi finora condotti hanno mostrato quanto una corretta ed efficace caratterizzazione di tale valore sia difficile e come, in mancanza di accurati studi, l'assegnazione di eco-etichette possa tradursi in uno strumento più pubblicitario che di genuina guida per i progettisti e i produttori e informazione dei consumatori.

Sarebbe però riduttivo considerare il problema della qualità delle merci e dei manufatti soltanto in relazione alla necessità di rendere minima la domanda di risorse naturali e la produzione di scorie. Questa linea di lavoro probabilmente libererebbe i paesi industriali del Nord del mondo dalla dipendenza dalle materie prime del Sud del mondo, con l'effetto peraltro di aggravare l'instabilità economica, politica e sociale dei paesi del Sud del mondo. Comunque e' certo che occorre "risparmiare" sulle risorse naturali e sulla capacita' ricettiva potenziale del pianeta nel suo complesso.

Il secondo campo di lavoro riguarda l'identificazione delle merci e dei manufatti adatti a soddisfare i bisogni umani, con priorità, in un mondo di risorse scarse, per i bisogni essenziali rispetto a quelli voluttuari o indotti. L'identificazione dei bisogni, di quanto è indispensabile e superfluo, è campo di indagine dei sociologi e degli psicologi. Ma, identificato un bisogno, occorre il lavoro di chimici, ingegneri, biologi, merceologi per riconoscere gli oggetti o le macchine che consentono di soddisfarlo sotto certi vincoli, uno dei quali è appunto la scarsità.

Quando si affrontano i problemi dei rapporti merceologici fra Nord e Sud del mondo ci si trova davanti a profonde contraddizioni. Per chi crede all'importanza di assicurare una forma di solidarietà e di sviluppo ai paesi del Sud del mondo la soluzione va cercata in più equi rapporti commerciali. La povertà dei paesi del Sud del mondo dipende dal fatto che i loro prodotti, per lo più risorse naturali o materie prime, vengono acquistati dal Nord del mondo a prezzi “troppo bassi”. Tali prezzi sono regolati da complicati accordi internazionali nei quali i paesi industrializzati hanno un peso determinante, sul piano politico e su quello finanziario.

Lo si e' visto ai tempi della ricordata crisi petrolifera degli anni 1973-1980; se i paesi che possiedono una materia strategica, come il petrolio o il rame o il cobalto, si accordano per esigere prezzi più elevati per le loro merci, i paesi industrializzati si ribellano tagliando l'afflusso di capitali, innescando guerre interne (si pensi alla guerra Iran-Irak del 1980-1989), imponendo governi amici (si pensi al governo Pinochet che ha riaperto, nel settembre 1973, le miniere cilene allo sfruttamento da parte delle multinazionali americane, a come e' stato soffocato nel Katanga il colpo di stato del giugno 1977), eccetera.

Non è stata ancora elaborata una teoria di che cosa avverrebbe se i paesi industrializzati accettassero di pagare prezzi più equi per le merci importate dal Sud del mondo. Si avrebbe un aumento dei prezzi interni delle merci, dalla benzina, all'acciaio, alla carta, alla gomma, ma si avrebbe nello stesso tempo un flusso di ricchezza nei paesi del Sud del mondo che potrebbero acquistare manufatti prodotti nel Nord del mondo. Probabilmente l'aumento del prezzo della benzina farebbe diminuire le automobili in circolazione nel Nord del mondo, ma le industrie del Nord del mondo si troverebbero di fronte un mercato, nel Sud del mondo, disposto ad acquistare i loro manufatti più di quanto possa fare oggi.

Se questo scenario si realizzasse, le industrie del Nord del mondo si troverebbero davanti alla necessità di riprogettare completamente le merci e i relativi cicli produttivi per rispondere alla domanda del Sud del mondo, una potenziale domanda grandissima di beni e servizi: domanda di abitazioni, servizi igienici e sanitari, macchine agricole, mezzi di trasporto, tecniche di coltivazione e di allevamento, tecniche di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli, forestali, zootecnici, tecniche di comunicazione e informazione, istruzione, alimenti, acqua, energia. A tale domanda si può rispondere soltanto con oggetti materiali, con merci, ma ben diversi da quelli che siamo abituati a produrre per il mercato del primo e del secondo mondo.

D'altra parte per pensare e progettare merci in grado di rispondere alla domanda del Sud del mondo occorre superare della grandi barriere culturali. Innanzitutto di carattere conoscitivo: mentre gli imprenditori hanno qualche idea della domanda di merci per i paesi industriali e sanno, bene o male, manipolare la domanda creando bisogni artificiali nei loro "consumatori", la cultura economica e imprenditoriale e' largamente impreparata a conoscere e comprendere i bisogni di miliardi di persone con religioni, usi, abitudini, linguaggi, completamente diversi da quelli occidentali.

I disastri possibili sono già davanti ai nostri occhi:per decenni l'aiuto allo sviluppo è consistito nell'inviare nel Sud del mondo le stesse macchine e merci prodotte e consumate nel Nord del mondo, senza tenere conto che esse svolgono il loro servizio a condizione di disporre di pezzi di ricambio, di pratiche di manutenzione sconosciute e comunque non disponibili nel Sud del mondo. Eppure una nuova politica industriale orientata a soddisfare i bisogni di alcuni miliardi di persone, sparse nei cinque continenti, a noi largamente sconosciute, potrebbe creare un gran numero di nuove occasioni di lavoro e di produzione.

Nello stesso tempo bisogna tenere conto che i paesi poveri debbono pagare le merci e i servizi forniti dal Sud del mondo; non si può continuare con la politica dell'aiuto caritativo allo sviluppo, finora seguita, anche perché si tratta di "carità" pensata --- soprattutto nelle forniture delle armi, merci oscene per eccellenza --- in modo che le spese possano tornare indietro rapidamente nelle tasche dei donatori.

E qui si ritorna al punto di prima: una politica di sviluppo più sana presuppone dei nuovi rapporti commerciali, prezzi più equi per le materie del Sud del mondo, accordi commerciali meno egoistici, cioè tutto il contrario di quanto avviene nei rapporti commerciali internazionali, che di fatto proteggono le economie forti, a tutto scapito dei paesi del Sud del mondo, fornitori di materie prime.

Tali nuovi rapporti commerciali sono richiesti dai paesi del Sud del mondo nelle sedi internazionali come si è visto nelle estenuanti trattative che hanno portato all'attuale Organizzazione Mondiale del Commercio, senza peraltro che siano state rimosse le vistose iniquita' e violenze del commercio Nord-Sud.

Nello stesso tempo se venisse data una risposta alla domanda del Sud del mondo, di giustizia e di equi rapporti commerciali, se aumentasse il prezzo delle fonti energetiche, dei minerali, delle fibre tessili, dei cereali, provenienti dal Sud del mondo, i riflessi sulla economia del Nord del mondo, così com'è oggi, non tarderebbero a farsi sentire, almeno per un più o meno lungo periodo di transizione, sotto forma di crisi e di disoccupazione.

Sembra di oscillare fra due poli: continuare così come oggi a costo di dover fare i conti con la ribellione del Sud del mondo e con una crescente pressione migratoria sul Nord del mondo; oppure dare una risposta al Sud del mondo a costo di fare i conti con crisi interne da noi, nel Nord del mondo. Le contraddizioni possono essere superate a condizione di un completo riesame delle linee politiche dei rapporti fra Nord e Sud del mondo che vedano al centro le materie prime e le merci, piuttosto che i rapporti di prestigio e di potere politico e finanziario.

Non a caso un articolo apparso nel giornale inglese “The Economist”, nell'aprile 1974, subito dopo la prima crisi petrolifera, era intitolato "Commodity power". Forse davvero il potere è oggi rappresentato dalle merci e la salvezza è offerta da una grande rivoluzione merceologica.