martedì 24 novembre 2009

I'm proud I'm a chemist

La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 gennaio 2005

Chimica è parolaccia ?

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it 

Nei giorni scorsi questo giornale ha riportato i risultati di una inchiesta sulle materie più amate e quelle più detestate dagli studenti e la più detestata è risultata ... la chimica. Ma chimica è davvero parolaccia ? Sembrerebbe di si, perché viene associata a cose spesso sgradevoli: l'inquinamento chimico, gli additivi chimici, la diossina di Seveso, eccetera. Quasi contrapposta a qualcosa di virtuoso che sarebbe "naturale", come gli alimenti naturali, o meglio biologici, l'acqua minerale naturale, eccetera.

autarchie e ecologia

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Autarchia è parolaccia: ricorda il fascismo, le ristrettezze, le miserie del decennio 1935-1945 e anche alcune cose ridicole. Di per se, il termine “autarchia” indica la soluzione di problemi tecnici e produttivi usando le risorse intellettuali e materiali di un singolo paese, isolato; è, insomma, il contrario di Europa e di globalizzazione, i nuovi idoli del XXI secolo. E’ però curioso che proprio in alcuni paesi fautori della globalizzazione, davanti ai problemi di scarsità di materie prime e di impoverimento ambientale, si vadano a reinventare soluzioni tecniche caratteristiche delle autarchie.

venerdì 13 novembre 2009

clima e economia

Il giornale dell’energia (Bari), 6-12 novembre 2006, p. 46-56
http://www.vasonline.it/home/archivio/politicheambientali/ARTICOLO_NEBBIA_ECONOMIA

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Doveva avere una bella fantasia quello --- fosse il caso, o un dio, o chi vi pare --- che ha deciso di formare la vita (così come la conosciamo) su una scheggia solida di quell’infinità di materia che occupa gli spazi celesti. Bisognava prima di tutto che la scheggia, che avremmo chiamato pianeta Terra, fosse ad una distanza giusta da una fonte di calore, il Sole. Una distanza che permettesse alla Terra di essere abbastanza calda --- ad una temperatura di circa 300 gradi Celsius superiore a quella dei freddissimi spazi interplanetari --- ma non troppo calda. Per dar luogo alla vita bisognava, infatti, che sulla Terra l’acqua si trovasse prevalentemente allo stato liquido, e per far questo occorreva che la Terra fosse circondata da uno strato di gas capace di filtrare una parte della radiazione solare incidente e capace di trattenere sulla superficie della Terra una parte del calore. Bisognava, in altre parole, che la superficie della Terra avesse e conservasse una temperatura media di circa quindici gradi Celsius.

martedì 27 ottobre 2009

Un motore da auto in casa

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 27 ottobre 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Le vendite delle automobili non vanno tanto bene; il mercato è saturo perché una famiglia può avere al più due o tre automobili e poi perché le strade, soprattutto quelle delle città, non ce la fanno più a sopportare un traffico automobilistico crescente e inquinante e diminuiscono continuamente gli spazi in cui parcheggiare: il traffico urbano è costituito per lo più da autoveicoli che spostano i lavoratori dalle zone residenziali alle zone dei posti di lavoro dove le automobili stanno ferme otto ore al giorno, più “auto-ferme” che “auto-mobili”, occupando spazio stradale; lo spazio stradale disponibile per il movimento diventa più stretto, il traffico si fa più lento con conseguente aumento dei consumi di carburante e dell’inquinamento. E’ una reazione a catena: la pressione dei venditori e facilitazioni di pagamento e sconti, pagati con pubblico denaro, con incentivi ”alla rottamazione”, spingono le famiglie ad acquistare nuove automobili, a buttare via le vecchie con aumento dei “rottami”, appunto, il cui smaltimento inquinante ricade come costo su tutti i cittadini e a far crescere il traffico caotico.

Una situazione insostenibile. Sta suscitando perciò interesse la proposta di utilizzare il motore, che è poi il cuore di un’automobile, come generatore fisso di elettricità, magari nella cantina di un condominio. Un motore a scoppio è una macchina termica che trasforma il calore dei combustibili in energia meccanica (quella che fa girare le ruote del veicolo) e calore. Su un autoveicolo un motore a scoppio ha un basso rendimento, un alto consumo di combustibile e provoca un elevato inquinamento perché il traffico, specialmente urbano, impone continue accelerazioni e frenate. Minore consumo e inquinamento si avrebbero se il motore funzionasse in modo continuo: già le automobili “ibride” hanno un motore a scoppio che funziona in modo continuo e ricarica le batterie elettriche che alimentano un motore elettrico, quello che è collegato alle ruote.

Un edificio ha bisogno sia di elettricità sia di calore; secondo la nuova proposta un motore a scoppio da automobile, posto in un condominio, in un negozio, in una piccola fabbrica, è collegato con un generatore di elettricità e con un sistema di recupero del calore che inevitabilmente si libera come sottoprodotto in un motore a scoppio L’edificio non avrebbe bisogno di acquistare elettricità e non ci sarebbe bisogno di nuove grandi centrali termoelettriche; ci sarebbe minore bisogno di combustibili per il riscaldamento, e le case automobilistiche potrebbero continuare a far lavorare i loro stabilimenti vendendo motori da installazione fissa.

Ci sono alcune complicazioni: una famiglia o un negozio ha bisogno di elettricità e calore in quantità variabile nelle varie ore del giorno e di giorno in giorno, di stagione in stagione; il “motore di condominio”, per funzionare bene, deve produrre elettricità e calore 24 ore al giorno per tutto l’anno e occorre perciò qualcuno disposto a comprare l’elettricità generata nelle ore in cui non c’è richiesta, un po’ come avviene con i generatori di elettricità solare o eolica. Insomma il successo della nuova proposta richiede tre soggetti; chi affitta o vende un motore fisso “a energia totale” che consuma e inquina poco funzionando in maniera continua; un secondo soggetto, che ha bisogno di elettricità e calore, per esempio, una famiglia, un condominio, un negozio, una piccola fabbrica, ma in modo discontinuo; e un terzo soggetto, per esempio una società elettrica, disposto a comprare l’elettricità che non è usata da chi ha installato il motore “a energia totale”.

La società automobilistica tedesca Volkswagen ha proposto di utilizzare, come generatore fisso, il motore montato sulla Golf e si è accordata con una società elettrica tedesca minore che compra e paga l’elettricità in eccesso generata presso il cliente, condominio o negozio, il quale paga il gas naturale che alimenta il suo “motore totale”, proprio come avviene in molte caldaie domestiche individuali o condominiali, e riscuote soldi per l’elettricità prodotta in eccesso e venduta alla società elettrica; il cliente inoltre ottiene calore (sotto forma di vapore o acqua calda) che gli serve per il riscaldamento invernale, per l’acqua per usi igienici o per le lavatrici, eventualmente per azionare frigoriferi ad assorbimento, che producono il freddo con il calore anziché con l’elettricità (si tratta di frigoriferi efficienti e ben collaudati). Sembrerebbero tutti contenti; la fabbrica che può continuare a produrre motori anche se la richiesta di automobili è in declino, il condominio o il negozio che spendono meno per l’elettricità e il riscaldamento, la società elettrica, l’economia energetica del paese, l’ambiente.

La cosa buffa è che questa stessa idea è stata proposta trent’anni fa da un ingegnere italiano, Mario Palazzetti, che lavorava per la Fiat; allora il dispositivo si chiamava Totem (un nome che indicava una utilizzazione “totale” dell’energia) e ne sono state vendute alcune unità, di diversa dimensione, negli anni fra il 1973 e il 1980. Poi la Fiat cessò la produzione, ripresero le vendite delle automobili e fu messa da parte questa utilizzazione “secondaria” dei motori, ricordata soltanto da chi si occupa di storia della tecnica; l’abbandono del progetto Totem ha rappresentato per l’economia energetica italiana (ma anche per la Fiat), una delle tante occasioni di innovazione perdute, un po’ per miopia dell’Enel, che allora sognava di costruire diecine di grandi centrali nucleari, un po’ per miopia della Fiat. Non so che fine farà anche questo nuovo sistema “a energia totale” riproposto dalla Volkswagen, ma è una cosa da seguire con attenzione. Chi sa che la storia della tecnica e dell’energia non nasconda altre invenzioni dimenticate, da ripescare nei tempi di crisi ?

martedì 20 ottobre 2009

Biologia e economia

Biologia e economia

Giorgio Nebbia

Stiamo vivendo in un periodo turbolento dell’economia; i prezzi di molte merci, fra cui petrolio, grano, rame, eccetera, sono saliti molto, poi sono diminuiti; molte persone hanno acquistato beni e servizi chiedendo prestiti alle banche e alcuni non sono stati in grado di pagare i debiti; molte persone rinunciano ad acquistare beni e servizi e i venditori si sono trovati con magazzini pieni di merci invendute; alcuni fabbricanti sono stati costretti a licenziare i lavoratori che, senza salario, sono entrati nella spirale di debiti non pagati e di rinuncia ad alcuni acquisti. Per evitare ulteriore disoccupazione lo Stato, con i soldi di tutti, risarcisce le banche in perdita o i produttori che non riescono a vendere. Un quadro che si è ripetuto più volte nella storia degli ultimi duecento anni. C’è una “legge” che descrive questi fenomeni ?

Propongo una parabola. Uno studente universitario del primo o secondo anno di biologia impara che le popolazioni animali seguono dei cicli di crescita e declino non molto diversi da quelli dell’economia. Immaginiamo una popolazione di animali che vive in un territorio grande e ricco di alimenti e di acqua, ma non infinito: un pascolo, un bosco, un lago. Dapprima gli animali sono pochi e crescono di numero perché hanno spazio disponibile e cibo abbondante e si riproducono facilmente. A poco a poco lo spazio comincia d essere affollato da molti animali e il cibo comincia a scarseggiare e il numero di figli diminuisce e, ad un certo punto, il numero dei nati uguaglia il numero dei morti e la popolazione non aumenta e diventa stazionaria. Le cose sembrerebbero in equilibrio, ma non è così perché la vita di questa popolazione altera le condizioni dell’ecosistema e il cibo e l’acqua che sembravano sufficienti per una popolazione stazionaria, cominciano a diminuire.

Pensate ad un pascolo in cui l’erba è pestata dagli animali presenti e il terreno si indurisce e si inaridisce; inoltre il metabolismo, cioè il processo di trasformazione del cibo, degli animali presenti genera degli escrementi che si fermano nel terreno e lo rendono ancora meno fertile, e finiscono nell’acqua che diventa meno bevibile e anzi dannosa. La popolazione animale allora diminuisce perché, con la propria stessa vita, ha impoverito le fonti di cibo e di acqua. I biologi dicono che la diminuzione è dovuta alla intossicazione del mezzo ambiente; il fenomeno è stato osservato in molte popolazioni animali e la trattazione matematica della crescita e del declino delle popolazioni è stata fatta da una multinazionale di illustri matematici e biologi negli anni trenta del Novecento: l’italiano Vito Volterra (1860-1940), l’americano Alfred Lotka (1880-1949), il sovietico Giorgi Gause (1910-1986), il russo-francese Vladimir Kostitzin. (1886-1963). Poiché peraltro la vita vince sempre, quando la popolazione di animali che occupano il nostro immaginario pascolo è diminuita, diminuisce anche il disturbo dell’ecosistema, l’erba ricomincia a crescere e l’acqua ritorna abbastanza pulita e il numero di animali del pascolo ricomincia ad aumentare, almeno fino ad un certo punto, almeno finché il loro numero non diventa eccessivo rispetto alla capacità ricettiva del pascolo, dell’ecosistema.

Nella vita reale le cose sono più complicate perché spesso arrivano nello stesso territorio animali che fanno concorrenza ai primi e si verificano conflitti; gli animali di una popolazione si nutrono (li chiamano predatori) di quelli di un’altra specie; talvolta una specie collabora con l’altra. I fenomeni economici si svolgono, più o meno nella stessa maniera e non c’è da meravigliarsi perché l’economia si basa sulla occupazione, mediante merci --- i frigoriferi, le automobili, i mobili, i vestiti --- di un territorio, quello degli acquirenti umani che rappresentano il “mercato”, non illimitato perché gli acquirenti sono in numero limitato ed è limitata la loro disponibilità di spesa; in un certo senso le merci sono gli animali della parabola e i consumatori sono la fonte del loro nutrimento.

Prendiamo il caso dei frigoriferi: una famiglia possiede un frigorifero, magari ne ha due, ma i venditori di frigoriferi hanno bisogno di vendere altri frigoriferi; per dar retta all’invito dei venditori una famiglia può comprare un altro frigorifero, forse altri due, ma se continua a comprare frigoriferi finirà per doverli mettere nella camera da letto. In altre parole la “popolazione” di frigoriferi in una economia, in un mercato, non può aumentare al di là della capacità ricettiva delle case. I venditori possono convincere i consumatori a gettare via, a “rottamare” (magari con incentivi statali) i vecchi frigoriferi, ma la massa dei rottami e il loro smaltimento finiscono per provocare danni e costi che inducono il mercato a “non” comprare nuovi frigoriferi. Per farla breve, se i fabbricanti producono frigoriferi illudendosi di venderli, devono fare i conti con un mercato limitato, che non ha soldi (il cibo della parabola) o che non sa dove metterli, finiscono per fallire e devono licenziare i lavoratori, il che restringe ulteriormente il mercato.

Un discorso simile vale per la “merce” automobile; in questo caso la crescita della popolazione di automobili che può entrare e occupare il mercato, il “pascolo” della parabola, è frenata sia dalla dimensione limitata del mercato (arriva un punto in cui una nuova automobile può essere messa soltanto nella camera da letto), sia dall’intossicazione dell’ambiente dovuta alla mancanza di parcheggi, di strade in cui circolare liberamente, dall’inquinamento. Col curioso paradosso che lo stesso “Stato” che da una parte incoraggia l’acquisto di nuove automobili, per far lavorare i fabbricanti, dall’altra parte deve limitarne la diffusione e circolazione per motivi ambientali. La parabola suggerisce che una economia “reale” può sopravvivere soltanto se i fabbricanti producono tenendo conto che la capacità ricettiva del mercato è limitata e che, al di là di un limite, devono smettere di produrre una certa merce, che ha saturato e inquina un mercato, e devono cercare di produrne un’altra. La parabola contiene perciò anche un messaggio di speranza: la produzione e l’acquisto delle merci possono ricominciare ad aumentare se saranno identificati i reali bisogni dei consumatori e i mezzi per soddisfarli con merci opportune, se si eviterà che la produzione e il metabolismo delle merci sovraffollino e avvelenino l’ambiente in cui si svolge la vita umana, l’unica cosa che conta.

domenica 4 ottobre 2009

Apologia dello scarabeo

La Gazzetta del Mezzogiorno, domenica 13 gennaio 2008

Apologia dello scarabeo che ricicla i rifiuti

Giorgio Nebbia

Nel gran discorrere che si è fatto di recente a proposito dei rifiuti di Napoli e della Campania, è emersa spesso la raccomandazione di procedere alla “raccolta differenziata”. Con questo termine si intendono delle azioni dirette a separare, dai rifiuti misti, quelle componenti suscettibili di essere sottoposte a riciclo, cioè alla trasformazione di nuovo in merci utilizzabili, una operazione del resto indicata come obbligatoria dalla legge europea e italiana sul trattamento dei rifiuti. Tale legge impone al primo punto l’obbligo di diminuire la massa dei rifiuti e al secondo punto l’obbligo di recuperare i materiali presenti nei rifiuti. I rifiuti --- per il momento mi riferisco ai rifiuti solidi urbani, la cui massa ammonta, in Italia, a circa 40.000 milioni di chilogrammi all’anno, il che significa che ogni persona, in media, produce ogni anno una massa di rifiuti corrispondente a oltre sei volte il proprio peso --- sono miscele molto variabili di merci usate: dagli imballaggi di plastica, vetro, alluminio, ferro, ai residui di alimenti, ai giornali e alla carta e cartoni usati, a indumenti usati, e innumerevoli altre cose, come è facile osservare guardando il flusso quotidiano di sacchetti che arrivano ai cassonetti (dove ci sono). Almeno la metà di questi oggetti potrebbe essere trattata per recuperare la materia che essi contengono, col che si avrebbero molti vantaggi: si dovrebbe estrarre e usare meno petrolio, metalli, prodotti agricoli e forestali, tutti beni naturali scarsi, si diminuirebbe l’inquinamento delle acque e del suolo e dell’aria, si darebbe lavoro a migliaia di persone. Il recupero dei materiali dai rifiuti presuppone la raccolta separata delle varie frazioni di materiali presenti nei rifiuti --- carta tutta insieme, vetro tutto insieme, plastica tutta insieme, eccetera --- e l’avvio dei materiali omogenei ad apposite industrie che trasformano le varie frazioni in nuovi materiali.

Il successo dei processi di riciclo dipende innanzitutto dalla conoscenza della natura e composizione dei materiali di partenza. Mentre esiste una (abbastanza accurata) merceologia della carta, della plastica, dei metalli, si sa molto poco della composizione delle innumerevoli sostanze presenti nelle merci usate. Per esempio: la carta dei giornali è costituita in gran parte da cellulosa, ma contiene anche molte altre sostanze, collanti, additivi e, soprattutto inchiostro al quale è affidata l’informazione che il giornale distribuisce. Se esistesse una macchina magica capace di separare la cellulosa dagli additivi e dagli inchiostri, sarebbe facile recuperare cellulosa adatta per nuovi fogli di carta; senza tale macchina, per il recupero della cellulosa riutilizzabile bisognerebbe avere informazioni chimiche precise sui diversissimi additivi e inchiostri presenti nei molti milioni di tonnellate di carta da giornali che vengono usati ogni anno in Italia. Attualmente dal riciclo di un chilo di carta da giornali si recupera molto meno di un chilo di cellulosa adatta per nuova carta, e si formano alcune centinaia di grammi di fanghi in cui sono concentrate le sostanze estranee alla cellulosa. Il riciclo diventa più difficile se fra la carta straccia finiscono imballaggi contenenti sostanze cerose o plastiche.

Prendiamo il vetro: le innumerevoli bottiglie di vetro in circolazione contengono gli ingredienti di base del vetro, dei silicati di calcio e di sodio, ma anche sostanze coloranti; da un chilo di rottami di vetro bianco si ottiene, per fusione e riciclo, quasi un chilo di vetro bianco, ma dai rottami di vetro misto colorati non solo non si recupera più vetro bianco, ma si ottengono vetri colorati di minore valore merceologico. Bisogna inoltre stare attenti che fra i rottami di vetro da riciclare non finiscano dei rottami di vetro delle lampade fluorescenti o dei video dei televisori che contengono sostanze tossiche. E ancora: se si avessero dei rifiuti di plastica costituiti da una sola materia --- polietilene, pvc (cloruro di polivinile), PET (poletilen-tereftalato), eccetera --- sarebbe possibile rifonderli e ottenere nuovi oggetti della stessa materia, ma quando siamo in presenza di miscele di varie materie plastiche è possibile al più ottenere oggetti di plastica di limitato valore, come piastrelle da pavimenti o paletti.

La salvezza dalla crisi dei rifiuti va quindi cercata nel rispetto della legge; nella progettazione di oggetti adatti per essere riciclati e nello sviluppo di tecniche e processi per separare e ritrattare con successo le varie frazioni di materie presenti nei rifiuti. A tal fine è centrale il ruolo della chimica e della merceologia, a cominciare dalla analisi degli oggetti in commercio e di quelli che finiscono nei rifiuti. Nel 1970 scrissi un articolo in cui sostenevo che un capitolo della mia materia, la Merceologia, avrebbe dovuto occuparsi di “rifiutologia”; tutti mi presero in giro, ma forse proprio ad una scienza, chimica, merceologia e tecnologia dei rifiuti bisogna rivolgersi se si vuole uscire dalle attuali trappole. I costi, i dolori, i conflitti che stiamo sperimentando da anni, il ridicolo che cade sull’Italia, possono essere alleviati soltanto con innovazione, ricerca e tecnica, e con l’informazione e conoscenza degli oggetti, a cominciare dalla scuola dove la rinata “Tecnologia”, obbligatoria nei tre anni della secondaria inferiore, ben si presta ad una educazione merceologica e … rifiutologica.

Magari guardando a quanto avviene in natura dove le operazioni di riciclo delle scorie permettono di conservare la vita dei campi e degli animali. Propongo anzi alle aziende dei rifiuti di adottare come simbolo il paziente scarabeo: non so se lo avete mai visto al lavoro: non è bello e sembra sempre alle prese con qualcosa da fare; non appena trova dei rifiuti organici se ne impossessa e comincia a farli rotolare fino a quando non hanno raggiunto la forma di palline da ping-pong, e intanto si nutre di una parte delle molecole che essi contengono e alla fine trasporta queste palline, ormai ridotte a cellulosa e lignina, nella sua tana per poter finire di mangiarle con calma. Lo scarabeo vive, insomma, alleviando il lavoro e i costi delle aziende di raccolta e trattamento dei rifiuti e, nel suo piccolo, lo fa bene, senza discariche, senza CDR e senza inceneritori.

mercoledì 30 settembre 2009

Quale è la verità ?

Villaggio Globale, 12, (45), marzo 2009
http://www.vglobale.it/VG/Articoli.php?UID=2867&nuid=48&suid=255
http://www.scribd.com/doc/13774436/2009-45-la-verita
http://nonviolenti.org/doc/An_05.09.pdf


Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it


1. Siamo di fronte a mutamenti climatici dovuti al riscaldamento della Terra per effetto serra: le attività umane immettono nell’atmosfera anidride carbonica e altri gas che modificano la trasparenza dell’atmosfera alle radiazioni solari che raggiungono la superficie terrestre e alle radiazioni chela Terra stessa, un corpo ”caldo” immerso negli spazi freddissimi interplanetari, irraggia verso l’esterno. La radiazione solare in entrata in media è maggiore di quella re-irraggiata dal pianeta verso l’esterno per cui i continenti e gli oceani stanno subendo un lento riscaldamento che comporta mutamenti nella circolazione delle acque oceaniche, fusione dei ghiacci e minaccia di aumento del livello dei mari. Lo dicono agenzie intergovernative, molti governi decidono di modificare le proprie politiche economiche e ambientali per arginare questo fenomeno.

Niente vero. Anzi le emissioni nell’atmosfera dell’anidride carbonica e dei “gas serra” nell’atmosfera non sono dovute alle attività umane ed è sbagliatissimo emanare leggi e intraprendere iniziative fiscali per limitare tali emissioni, tanto più che se aumenta il costo dei combustibili fossili e delle merci si compromettono i già fragili equilibri economici internazionali. Anzi forse è vero che aumenta la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera e che ciò provoca mutamenti climatici, ma la soluzione va cercata nell’uso, al posto dei combustibili fossili, dell’energia nucleare che produce calore e elettricità senza emissione di anidride carbonica.

Anzi forse è vero che sono in atto dei mutamenti climatici, ma si tratta di fenomeni del tutto naturali, come dimostra la meteorologia storica; raffreddamenti e riscaldamenti della Terra si sono verificati nei millenni e nei secoli passati quando non c’erano carbone e petrolio che quindi non possono essere accusati di tali mutamenti. Anzi non c’è neanche un riscaldamento globale che fa fondere i ghiacciai perché rilevamenti accuratissimi mostrano che la superficie e il volume dei ghiacci polari sta aumentando e quindi, tranquilli, continuate ad usare petrolio e automobili sempre più potenti.

Anzi questa storia del riscaldamento globale è una pura invenzione del capitale internazionale per costringere i popoli poveri a limitare i loro consumi ed è quindi un’abile operazione di neoimperialismo a cui bisogna rispondere incoraggiando i consumi energetici.

Allora quale è verità ?

2. Ci sono dei segni che le riserve mondiali di petrolio si stanno esaurendo; i famosi pozzi degli Stati Uniti, che fornivano petrolio a tutto il mondo, si stanno svuotando e gli Stati Uniti sono oggi costretti a importare circa la metà del proprio fabbisogno di petrolio da altri paesi. Come ha ben spiegato il famoso geologo King Hubbert, le statistiche della produzione di qualsiasi risorsa esauribile mostrano che la produzione aumenta rapidamente a mano a mano che se ne riconoscono i vantaggi, poi rallenta, poi addirittura diminuisce a mano a mano che le riserve si impoveriscono dopo aver superato un massimo, il celebre “picco di Hubbert”. Il fenomeno si osserva nel caso di molti pozzi petroliferi, ma anche di molte altre materie prime estratte da risorse non rinnovabili. Vale per il nitrato di sodio estratto nell’Ottocento dai giacimenti cileni, vale per lo zolfo estratto in Sicilia nel corso dell’Ottocento da giacimenti che si sono esauriti, vale per l’acido borico presente nei soffioni boraciferi di Larderello e vale in molti altri casi.

Niente vero. Anzi il petrolio esistente nel mondo è molto di più di quello che si pensi; molti giacimenti vengono chiusi perché l’estrazione del petrolio residuo costerebbe troppo; molti giacimenti non vengono esplorati e messi in funzione perché il ricavato delle compagnie è troppo basso. Anzi ci sono giacimenti grandissimi di scisti bituminosi da cui è possibile ottenere petrolio a costi accettabili. Anzi è bene non mettere mano nei giacimenti di sabbie e scisti bituminosi perché l’estrazione, da essi, del petrolio è conveniente ma ha un alto costo di inquinamento ambientale per le scorie che residuano.

Anzi il petrolio non si forma per decomposizione di sostanze organiche finite nel sottosuolo centinaia di milioni di anni fa e quindi trasformate in petrolio esauribile, ma si forma anche per reazioni fra materiali inorganici presenti in quantità grandissime nella crosta terrestre e quindi le riserve di petrolio sono praticamente illimitate. Anzi solo una piccola parte dei continenti e degli oceani è stata esplorata a fini di prospezioni petrolifere e di gas naturale e quindi i deserti caldissimi o le zone nordiche ghiacciate o il fondo degli oceani nascondono riserve grandissime di petrolio.

Anzi le riserve petrolifere sono davvero limitate ma il petrolio e molti prodotti petroliferi possono essere ottenuti dalla gassificazione del carbone, di cui esistono giacimenti molto più grandi di quelli del petrolio e del gas messi insieme. Anzi la gassificazione del carbone è una cosa pessima perché richiede l’estrazione di crescenti quantità di carbone da miniere in cui le condizioni di lavoro sono dolorose e pericolose. Anzi il carbone può essere trasformato in gas nel sottosuolo senza portarlo in superficie.

Allora quale è la verità ?

3. L’uso di combustibili fossili --- carbone, petrolio, gas naturale --- provoca l’aumento della concentrazione nell’atmosfera di gas serra responsabili dei mutamenti climatici. La vera soluzione va cercata nell’uso dell’energia nucleare che produce elettricità a basso prezzo in grande quantità, in modo sicuro e senza emissioni di anidride carbonica.

Niente vero. Anzi con i reattori nucleari si può ottenere soltanto elettricità e quindi il settore dei trasporti continuerebbe a chiedere prodotti petroliferi, a meno di utilizzare l’elettricità nucleare per produrre come carburante il controverso idrogeno. Anzi la produzione di energia nucleare è accompagnata dalla formazione di grandi quantità di scorie radioattive che devono essere tenute separate dalla biosfera per secoli o millenni. Anzi l’elettricità nucleare non è inquinante, a differenza di quella ottenuta bruciando prodotti petroliferi e carbone e il problema della sistemazione delle scorie radioattive è fastidioso ma è risolvibile seppellendole in adatte cave o nel sottosuolo o negli oceani o mandandoli nello spazio mediante appositi razzi.

Anzi è impossibile seppellire le scorie nucleari che contengono elementi che sono radioattivi ancora dopo 200.000 anni perché occorrerebbe una continua sorveglianza dei depositi da parte di una polizia internazionale con perdita delle libertà individuali. Anzi l’energia nucleare è sicura perché nelle molte diecine di anni (circa 12.000 anni-reattore) in cui alcune centinaia di reattori hanno funzionato ci sono stati due soli incidenti “importanti”, quello di Three Mile Island negli Stati Uniti e quello di Chernobyl, in Ucraina. Anzi esiste una lunga storia di incidenti a centrali nucleari, a impianti di arricchimento dell’uranio, a impianti di ritrattamento del combustibile irraggiato, al trasporto di materiali radioattivi. Anzi i veri pericoli e costi si hanno quando una centrale nucleare deve essere smantellata e si deve trovare una sistemazione per i materiali da costruzione contaminati da radioattività.

Anzi l’energia nucleare è più costosa di quella ottenute da combustibili fossili o da fonti rinnovabili. Anzi l’energia nucleare è economica; se si fanno i conti del costo dell’elettricità nucleare riferiti all’intero ciclo dal minerale di uranio ai reattori alle scorie si vede che esso è più basso del costo dell’elettricità ottenibile dai combustibili fossili, da fonte idroelettrica o geotermica e anche da fonti rinnovabili. Anzi una parte dei costi possono essere recuperati vendendo il plutonio che si forma come sottoprodotto dopo separazione dagli altri elementi radioattivi presenti nel combustibile irraggiato. Anzi questo è possibile soltanto con la moltiplicazione delle armi nucleari e quindi dell’instabilità politica mondiale. Anzi il ritrattamento del combustibile irraggiato è una operazione pericolosa e inquinante. Anzi le riserve di uranio nel mondo sono limitate e, se venisse avviato un vasto programma di costruzione di centrali nucleari, raggiungerebbero anche loro un “picco di Hubbert” per poi declinare. Anzi le riserve mondiali di uranio sono molto grandi e i reattori autofertilizzanti possono trasformare anche l’uranio-238 non fissile in plutonio fissile e far durare le riserve di uranio, grandi o limitate che siano, per tempi lunghissimi. Anzi al posto dell’uranio si può far funzionare i reattori con torio che è abbondante sulla Terra.

Allora quale è la verità ?

4. E’ certo che l’uso dei combustibili fossili comporta l’esaurimento delle riserve esistenti e provoca mutamenti climatici e che la soluzione nucleare è inaccettabile. La vera soluzione va cercata nel ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, tutte derivate dal Sole, sotto forma di calore solare o di energia eolica.

Niente vero. Anzi sulla produzione di energia dal Sole non si può contare perché occorrerebbero migliaia di chilometri quadrati di superficie terrestre coperta di pannelli solari per avere quantità apprezzabili di calore o elettricità. Anzi sarebbe una cosa molto buona perché le grandi zone terrestri in cui la radiazione solare è elevata sono proprio nei deserti poco abitati dei paesi poveri e quindi da questi potrebbe venire il rifornimento di energia futura per i paesi industriali. Anzi è inaccettabile la dipendenza da nuovi monopoli energetici, questa volta costituiti dai paesi ricchi di Sole e di impianti solari. Anzi i paesi industriali potrebbero vendere pannelli solari ai paesi con elevata insolazione e comprare in cambio energia elettrica o idrogeno solari dai paesi oggi arretrati.

Anzi il ricorso al solare sarebbe una soluzione pessima perché gli impianti solari, termici o fotovoltaici, hanno una durata limitata, e dopo alcuni anni o decenni si dovrebbero smaltire enormi quantità di rottami inquinanti. Anzi solo i pannelli solari al silicio comportano problemi di smaltimento e di inquinamento tanto che tendono ad essere sostituiti da pannelli fotovoltaici a semiconduttori organici. Anzi non ci si deve neanche pensare perché il rendimento dei nuovi pannelli fotovoltaici è basso e occorrerebbero superfici terrestri ancora più grandi per fornire l’elettricità oggi necessaria nel mondo.

Anzi per produrre elettricità dal Sole conviene usare non i pannelli fotovoltaici ma piuttosto il calore solare con concentrazione per ottenere vapore per alimentare turbine. Anzi questa soluzione non convince perché i sistemi per concentrazione producono vapore in maniera intermittente e la produzione di vapore cessa se il cielo è coperto di nuvole. Anzi il calore solare ad alta temperatura può essere accumulato in speciali materiali e reso disponibile durante tutto il giorno.

Anzi se proprio si vuole ottenere elettricità dalle fonti rinnovabili meglio usare i motori eolici alimentati dal vento che si genera sulla terre emerse e sugli oceani dal movimento di aria che scorre dalle parti calde alle parti fredde del pianeta, dal momento che il vento ha dentro di se una forza grandissima. Anzi le centrali eoliche deturpano il paesaggio e uccidono gli uccelli che vengono risucchiati dal moto delle pale. Anzi l’energia eolica potrebbe fornire elettricità in forma decentrata e quindi si eviterebbero le grandi reti di trasmissione dell’elettricità generata dalle grandi centrali termoelettriche e nucleari. Anzi sarebbe una soluzione pessima perché gli impianti eolici forniscono elettricità in forma discontinua e una interruzione dell’erogazione potrebbe far morire negli ospedali i pazienti dipendenti da apparecchiature elettriche. Anzi i problemi della discontinuità sono inesistenti perché l’elettricità di origine eolica può essere accumulata, a mano a mano che si forma, in adatte batterie ricaricabili come le recenti a ioni di litio. Anzi sarebbe un disastro perché le maggiori riserve mondiali di litio sono nelle mani della Bolivia, un paese socialista e nemico del capitalismo, e il prezzo delle batterie al litio sarebbe destinato ad aumentare. Anzi la forza del vento potrebbe essere utilizzata nella maniera migliore usando la forza delle onde generate dal vento. Anzi le centrali elettriche a onde marine comportano devastanti interventi sulle coste.

Allora quale è la verità ?

5. La principale funzione che il Sole sa svolgere bene è la ”fabbricazione” di biomassa vegetale con la fotosintesi clorofilliana, che porta via anidride carbonica dall’atmosfera, e dalla biomassa vegetale è possibile ottenere sia combustibili solidi, sia combustibili liquidi come l’alcol etilico o il biodiesel da usare come carburante per autoveicoli.

Niente vero. Anzi la produzione di alcol etilico, o bioetanolo, dagli amidi di cereali, alimenti indispensabili per gli esseri umani e ancora di più per le popolazioni povere, sottrae una grande massa di alimenti alle bocche di chi ha fame; così i poveri non avrebbero di che mangiare per permettere ai SUV dei paesi ricchi di andare a tutta velocità. Anzi l’uso dell’alcol etilico come carburante libera dalla dipendenza dal petrolio e il bioetanolo può essere ottenuto da zuccheri o da materiali lignocellulosici e scarti della lavorazione del legno. Anzi in questo modo si incentiverebbe la piantagione di piante da zucchero o alberi a rapida crescita che alterano molti ecosistemi naturali e impoveriscono la biodiversità.

Anzi invece di alcol carburante si possono usare biocarburanti ottenuti dai grassi, il biodiesel. Anzi non si devono usare grassi da trasformare in biodiesel perché i grassi sono prodotti in monocolture che sottrarrebbero terreno alle coltivazioni di piante alimentari. Anzi conti accurati mostrano che la quantità di energia impiegata nelle varie operazioni di produzione dei biocarburanti è inferiore, talvolta molto inferiore, a quella che i biocarburanti liberano nei motori a scoppio. Anzi conti accurati mostrano che il consumo di energia, in parte ottenuta da combustibili fossili, per la preparazione dei terreni da coltivare a piante energetiche, per la semina, per il raccolto, la trasformazione in carburanti, per la distillazione, e lo smaltimento dei residui e sottoprodotti è molto più alta di quella che i biocarburanti liberano nei motori a scoppio. Anzi i sottoprodotti della trasformazione di prodotti agricoli e forestali in biocarburanti possono trovare utile impiego nell’alimentazione del bestiame..

Anzi la produzione di carburanti dalla biomassa vegetale, fatti bene i conti, contribuisce anche lei ai mutamenti climatici. Anzi l’uso dei biocarburanti è importante per contrastare il riscaldamento globale perché essi immettono nell’atmosfera anidride carbonica e gas serra nella produzione e nella combustione, ma si tratta dell’anidride carbonica sottratta dall’atmosfera quando le materie prime si sono formate per fotosintesi.

Allora quale è la verità ?

6. Il vero problema ambientale del futuro non é il rifornimento di energia, ma lo smaltimento dei rifiuti. Un paese come l’Italia produce ogni anno circa 150 milioni di tonnellate di rifiuti solidi, di cui circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Nell’intero mondo la produzione di rifiuti si può stimare di circa 10 miliardi di tonnellate all’anno, una quantità superiore a quella del carbone, petrolio e gas naturale estratti e bruciati ogni anno. La produzione di rifiuti domestici nel mondo si può stimare di circa 1,5 miliardi di tonnellate ogni anno: plastica, residui di alimenti, metalli, vetro, carta. eccetera. Nessuno sa come liberarsene e occorre contrarre i consumi e gli sprechi

Niente vero. Anzi con appropriate tecniche la maggior parte di questi rifiuti può essere riciclata e occorre diffondere la cultura della raccolta separata delle varie componenti dei rifiuti --- carta, vetro, plastica, metalli, eccetera --- che adatte industrie trasformano in nuove merci. Anzi la raccolta separata è inefficace perché le varie frazioni di rifiuti sono contaminate e di qualità merceologica che le rende inadatte alla trasformazione in nuove merci. Anzi la vera soluzione consiste nel bruciare tutto in appositi inceneritori. Anzi gli inceneritori sono altamente inquinanti e si deve ricorrere piuttosto a trattamenti meccanico-biologici. Anzi la vera soluzione è offerta dai trattamenti con torcia al plasma. Anzi la vera soluzione è offerta dalla pirolisi a bassa temperatura. Anzi meglio i gassificatori che trasformano i rifiuti in gas innocui, anzi in gas combustibili.

Anzi col calore generato dall’incenerimento dei rifiuti è possibile ottenere energia elettrica e quindi i rifiuti sono vere fonti energetiche rinnovabili. Anzi questo è un trucco per finanziare i proprietari degli inceneritori con soldi che sono fatti pagare ai cittadini con aumento delle tariffe elettriche, così che gli utenti pagano il diritto ad essere inquinati. Anzi gli inceneritori sono una soluzione pessima perché restano sempre dei residui solidi di ceneri che sin devono smaltire in qualche discarica. Anzi le discariche sono la vera soluzione per lo smaltimento dei rifiuti solidi. Anzi non si trovano spazi in cui aprire nuove discariche che sono poi puzzolenti e richiedono il trasporto dei rifiuti attraverso il territorio. Anzi le discariche sono buonissime perché si può recuperare il metano che si forma nella putrefazione dei rifiuti e dopo qualche tempo si possono coprire con terra e ci si possono piantare sopra degli alberi e dei parchi giochi. Anzi il materiale sepolto in una discarica anche dopo molto tempo nel sottosuolo libera liquami contaminati che vanno a inquinare le falde idriche sotterranee e gas come il metano che aggravano l’effetto serra. Anzi il fondo delle discariche si può impermeabilizzare e le acque di putrefazione possono essere portate in superficie e depurate.

Allora quale è la verità ?

7. Il vero grande problema del futuro dell’umanità è la scarsità di acqua potabile di buona qualità e di acqua per l’irrigazione. Bisogna limitare i consumi e evitare di inquinare le acque dolci esistenti.

Niente vero. Anzi non c’è un problema di scarsità di acqua perché si può recuperare acqua potabile dalla depurazione delle acque reflue delle città e dei villaggi con vantaggio per la salute delle popolazioni. Anzi l’acqua dolce può essere trasportata dalle grandi riserve idriche esistenti mediante grandi acquedotti. Anzi in questo modo si provocano conflitti fra paesi che sono attraversati dagli stessi fiumi o che si affacciano sugli stessi laghi e si turbano delicati equilibri negli ecosistemi associati ai grandi fiumi e laghi. Anzi l’acqua dolce può essere ottenuta dal mare per dissalazione. Anzi i costi e i consumi di energia dell’acqua dissalata sono altissimi. Anzi i costi di produzione dell’acqua dissalata sono minori di quelli dell’acqua trasportata con condotte soprattutto se si usa il calore di rifiuto di altre lavorazioni. Anzi la produzione di acqua dolce per dissalazione dell’acqua di mare e lo scarico delle soluzioni concentrate di sali che risultano dopo la dissalazione comportano disturbi alla pesca e alla vita marina.

Allora quale è la verità ?

Potrei andare avanti a lungo sugli esempi di negazionismo e revisionismo associati ai soli problemi ambientali: sembra che il revisionismo sia il grande sport del ventesimo e ventunesimo secolo applicato a molti aspetti della vita civile. Direi della vita “incivile” perché il progresso richiederebbe una grande operazione di ricerca della vera-verità anche nel campo scientifico e tecnologico e la fine del chiacchiericcio che esplode intorno ad ogni nuovo o vecchio aspetto, amplificato dai giornali, dalle televisioni e da Internet spesso disposti a credere chiunque sia in cerca di qualche visibilità con idee anche strampalate.

Una persona potrebbe essere indotta a credere che la verità vada cercata nella “scienza”, ma purtroppo spesso sono “scienziati” apparentemente “attendibili”, quelli che dicono una cosa e quelli che dicono il suo contrario. Stiamo vivendo in un’epoca in cui, come diceva Mao, al buio tutti i gatti sono grigi. Ci deve essere allora qualche guida che aiuta a districarsi nella selva di semi-verità e di semi-menzogne. Purtroppo la risposta non va cercata nei computers, nelle riviste o nei trattati, ma nella propria testa, nello sforzo di conoscenza e di approfondimento diretto dei fatti, nella verifica delle notizie alla luce dei valori che ciascuno porta nel proprio cuore. E’ un valore la possibilità di muoversi e di illuminare le case e di avere un lavoro ed è un valore il diritto alla salute e ad avere cibo sufficiente e acqua pulita: la tale proposta o invenzione in quale maniera rende massima la godibilità di ciascuno di questi diritti ? Chi guadagna proponendo una certa invenzione o innovazione e chi ci rimette, natura e ambiente compresi ? e io da che parte sto fra chi ci guadagna e chi ci rimette ?

martedì 29 settembre 2009

Sul revisonismo ecologico SM 2636

AltroNovecento, Anno 6, n. 10 agosto 2005 (www.fondazionemicheletti.it)
http://www.fondazionemicheletti.it/dblog/articolo.asp?articolo=838


Revisionismo ecologico


Giorgio Nebbia


Il mondo è sempre andato avanti perché alcune persone hanno chiesto cambiamenti o riforme sulla base di diritti e valori differenti da quelli delle società e comunità in cui vivevano. Tali cambiamenti disturbavano o alteravano gli interessi dei portatori dei diritti e valori allora correnti e le persone disturbate dai cambiamenti hanno cercato di opporsi; il più comune meccanismo consiste nel negare che i nuovi diritti e valori avessero senso o utilità generale.

Si potrebbe scrivere una intera storia dell’umanità sulla base di questi conflitti di diritti e valori e sulle varie forme del negazionismo.

Solo per fare alcuni esempi: quando alcune persone, nei primi decenni dell’Ottocento, hanno sostenuto che era diritto dei ragazzi e delle donne di lavorare soltanto un numero limitato di ore al giorno per non averne danno alla salute dei loro organismi, più deboli di quelli dei maschi adulti, hanno disturbato gli interessi dei padroni delle manifatture che ricavano maggiori profitti --- il che consideravano un loro diritto e valore --- sfruttando una mano d’opera che costava di meno.

I padroni delle manifatture organizzarono una campagna di stampa e di opinione pubblica negando che il lavoro nelle fabbriche o nelle miniere arrecasse danno alla salute delle ragazze e dei ragazzi, utilizzando anche la voce di autorevoli e riconosciuti scienziati, il cui prototipo è quel dottor Andrew Ure, autore del celebre libro “La filosofia delle manifatture”.

D’altra parte i negazionisti sostennero che l’aumento dei costi di produzione, provocato da leggi che avessero limitato l’orario di lavoro di alcune categorie di lavoratori sarebbe stato dannoso non solo al loro diritto al profitto, ma avrebbe anche danneggiato valori e diritti della collettività perché avrebbe tarpato le ali alla conquista britannica dei mercati --- o, per usare termini più moderni, che troveremo fra poco, impediva la competitività delle merci inglesi --- con conseguente perdita di posti di lavoro, eccetera. I termini del dibattito si trovano nel “Capitale” di Marx e sono stati oggetto di numerosi studi nel corso del Novecento. Come risultato di questo conflitto furono approvate, dapprima in Inghilterra, poi lentamente in altri paesi, e anche in Italia, delle leggi che limitavano l’orario di lavoro dei ragazzi e delle donne.

Con simili argomenti si è svolto il dibattito sulla abolizione della schiavitù, specialmente negli stati del Sud degli Stati uniti. Alcune persone sostenevano che la schiavitù era inumana e ingiusta e che la libertà della persona era un diritto; “La capanna dello zio Tom” di Harriett Beecher Stowe rese popolare nel mondo questa tesi

I negazionisti esponevano vari motivi per sostenere il loro diritto di possedere schiavi: il loro possesso consentiva un basso costo del lavoro e la produzione a basso prezzo di molte merci,, cosa di cui godevano l’intero paese e gli stessi abolizionisti; mettevano poi in evidenza che gli schiavi erano trattati bene, quasi come persone di famiglia, di tanto in tanto potevano anche essere liberati, che gli afroamericani erano diversi dagli americani bianchi, tesi sostenute anche da alcune “chiese” di americani bianchi, eccetera. Ci sono voluti decenni per l’abolizione della schiavitù, poi per il riconoscimento di uguali diritti (ancora in parte non accettati) fra bianchi e neri.

Simili argomenti sono stati usati per negare i diritti e i valori di altri “diversi”, come gli ebrei o gli zingari, ma anche i diritti e i valori di alcune comunità bianche, diverse per religione o credo politico; ogni volta i negazionisti si sono sforzati di mettere in evidenza, anche con scritti di filosofi e sapienti, che il riconoscimento dei diritti e valori richiesti era nocivo all’equilibrio sociale, alla conoscenza, all’economia della comunità dei negazionisti, eccetera.

I più esplorati fenomeni di negazionismo si sono avuti in occasione della persecuzione, nella Germania nazista e nei paesi fascisti, ma non solo, degli ebrei, basata sulle tesi che gli ebrei erano “diversi”, erano usurai, erano responsabili della crocefissione di Cristo, e dovevano essere privati del diritto alla uguaglianza e alla libertà di esprimere i loro valori umani e civili, addirittura della vita. Da qui le note campagne di persercuzione e sterminio, che vengono ancora oggi negate o giustificate o minimizzate dai portatori degli stessi anti-valori tipici di nazismi e dei fascismi.

Un aspetto interessante riguarda il coinvolgimento dei perseguitati al fianco dei persecutori; dei neri che si sono adattati ad accettare la discriminazione dei bianchi per catturare una qualche benevolenza dei, o accettazione da parte dei, bianchi; dei lavoratori sfruttati al fianco dei padroni per non perdere il proprio posto di lavoro (il “raffinato” ricatto occupazionale: o diritti o lavoro).

Gli stessi scontri fra diritti e valori si trovano nei conflitti ecologici. La contestazione ecologica nasce dal fatto che alcune persone riconoscono dei valori e dei diritti in alcune caratteristiche del mondo naturale.

Prendiamo il caso delle lotte contro l’inquinamento dell’aria. Alcune persone hanno riconosciuto e detto che esisteva il diritto a respirare aria pulita e che l’inquinamento dell’aria, danneggiando la salute, violava tale diritto. A poco a poco tali persone si sono guardate intorno e hanno identificato alcune fonti di inquinamento dell’aria e hanno chiesto leggi che lo vietassero. Gli inquinatori si sono naturalmente opposti, rivendicando il solito diritto: se si desse retta alle richieste di questi portatori di nuovi diritti alla salute, le imprese dovrebbero depurare i fumi dei loro camini e aumenterebbero i costi di produzione delle loro merci. Possono i legislatori tarpare le ali alle industrie, far diminuire la competitività del paese ? D’altra parte possono i legislatori accettare che aumenti il numero di ammalati e di morti ?

A questo punto entrano in azione i negazionisti, spesso esperti “scienziati”, che sostengono che un inquinamento esiste, ma così minimo da non nuocere alla salute, al contrario di coloro che sostengono che anche inquinamenti così minimi sono nocivi alla salute. Ma poi quanto nocivi ? se non si mettono i filtri quante persone in più muoiono all’anno ? e se si mettono i depuratori quanto devono spendere di più le imprese e di quanto aumenta il prezzo delle scarpe o delle automobili e di quanto sono danneggiati i cittadini, inquinati compresi, e l’economia nazionale?

Tutta la storia del movimento per la difesa dell’ambiente --- che fra l’altro viene ospitata in questa rivista --- è piena di questi conflitti.

La contestazione delle centrali nucleari è basata sul fatto che le operazioni di preparazione del combustibile nucleare, il funzionamento delle centrali e il trattamento dei residui radioattivi sono dannosi per la presente e per le future generazioni umane e non sono accettabili anche se l’elettricità nucleare costasse di meno (il che non è vero) di quella ottenuta da altre fonti:

I negazionisti sostengono che l’intero ciclo del combustibile nucleare può essere tenuto sotto controllo per evitare contaminazioni radioattive (il che non è vero, come dimostra l’insuccesso nella sistemazione delle scorie radioattive) e che anzi l’energia nucleare è ecologicamente virtuosa perché produce elettricità senza generare gas responsabili dell’effetto serra.

E’ preferibile far correre, alle generazioni future, il rischio di catastrofi climatiche (dovute al crescente uso di combustibili fossili per colpa dei gas che emettono) o quello di contaminazioni radioattive (dovute alle code delle attività nucleari) ? E, davanti al prevedibile esaurimento di fonti energetiche fossili, la preoccupazione per le generazioni future giustifica il privare di elettricità i poveri della generazione presente ?

Si potrebbero usare fonti energetiche rinnovabili, come quella del Sole, del vento, del moto delle acque, ma i negazionisti negano i vantaggi di ciascuna di queste sulla base dei loro caratteri fisici (la necessità di grandi superfici terrestri per la loro captazione), o dei
danni ambientali dei laghi artificiali necessari per le centrali idroelettriche; nel caso poi degli aerogeneratori, un negazionismo che viene dall’interno dello stesso movimento ambientalista, denuncia che i motori eolici deturpano il paesaggio e uccidono gli uccelli del cielo; ma un’altra parte del movimento ambientalista obietta che si possono usare motori a vento di piccole dimensioni, e avanti di negazionismo in negazionismo, per la maggior gloria del petrolio, del carbone e del nucleare.

A chi contesta, nel nome del diritto degli animali, la caccia il negazionismo obietta che i cacciatori (spesso contadini o operai) hanno diritto al sano sport all’aria aperta, che i divieti della caccia danneggiano i fabbricanti di armi e cartucce e i loro lavoratori, che di uccelli ce ne sono tanti nel cielo e che una legge restrittiva sulla caccia in Italia spinge i cacciatori in altri paresi dove non ci sono tante ubbie ecologiste e si può uccidere quello che si vuole.

A chi contesta gli inceneritori dei rifiuti, considerati responsabili di inquinamento dell’aria e del suolo, i negazionisti fanno notare le concrete difficoltà e parzialità della raccolta differenziata, i danni ecologici delle discariche nel suolo, i vantaggi della produzione di elettricità e di calore che si possono recuperare dalla combustione e “valorizzazione energetica” dei rifiuti.

Un intero libro si potrebbe scrivere sulla contestazione dell’inquinamento atmosferico provocato dai carburanti per autoveicoli e sul negazionismo dei danni dovuti ai vari carburanti che si sono succeduti in un secolo: benzina, alcol etilico, benzina ad alto numero di ottano addittivata con il velenoso piombo tetraetile, benzina addittivata con MTBE, benzina contenente benzolo, oppure composti aromatici. Carburanti responsabili, in una rincorsa fra motori più compressi e carburanti meno “detonanti”, dell’emissione nell’atmosfera e nei polmoni umani, di ossidi di azoto e di zolfo, di composti del piombo, di sostanze cancerogene, di polveri, con un vivace negazionismo, da parte dei fabbricanti, dei danni di ciascun carburante per evitare di doverlo cambiare: nessuno potrà mai sapere quanto i “perfezionamenti” dell’industria automobilistica e petrolifera, sono costati in vite umane, in salute, in malattie.

Gli esempi potrebbero continuare, dal dibattito sui pesticidi, sui detersivi, sugli additivi alimentari, sui solventi responsabili del buco dell’ozono stratosferico, sull’erosione del suolo dovuto alla speculazione edilizia, sulle sostanze tossiche usate nei cicli produttivi che avvelenano il primo importante “ambiente”, quello del corpo umano dei lavoratori dentro la fabbrica o nei campi. E ogni volta si trovano contrapposti gli stessi soggetti; i portatori della domanda di condizioni più sane e sicure e di nuovi diritti e valori; i negazionisti che negano, appunto, tali valori e sostengono che il mondo va benissimo così com’è; gli scienziati che sostengono i valori della contestazione; gli scienziati che sostengono le ragioni dei negazionisti; i legislatori che devono dare un peso e ascolto e legiferare a sostegno dei contestatori o dei negazionisti, sulla base di considerazioni squisitamente politiche. Infine c’è la collettività che vorrebbe il cielo pulito e le scarpe e le automobili a basso prezzo.

Esiste un criterio “oggettivo”, “scientifico”, per riconoscere se una fonte di inquinamento o di nocività ambientale è davvero nociva, al punto da giustificare un freno all’economia e un aumento dei costi delle merci e dei servizi ?

A mio parere non esiste perché i valori e i diritti non possono essere misurati in chili e in euro; poiché peraltro qualche indicatore si deve trovare, sono stati inventati numerosi processi per assegnare un numero alla qualità o virtù ecologica di una merce o di un servizio sulla base dei danni alla vita o alla salute delle persone. O alla perdita di bellezza.

Ma quanti morti all’anno sono provocati da ogni chilo di anidride solforosa o da ogni grammo di diossina che esce dal camino di un forno o di un inceneritore o dal tubo di scappamento di una automobile ? quante ore di lavoro e di vita sono perdute ogni anno per le malattie provocate dagli agenti inquinanti dell’aria o delle acque ? La scienza epidemiologica dovrebbe dare una risposta a tali domande sulla base di considerazioni statistiche, anche se è difficile accertare se una persona è morta effettivamente per quei grammi di sostanze cancerogene respirati magari anni prima.

Ma anche nell’ambito dei portatori di nuovi diritti e valori --- nell’ambito della contestazione ecologica --- ci sono molte sfumature i cui conflitti giovano sostanzialmente a chi non vuole cambiare niente e alcune assumono gli stessi criteri del negazionismo.

Alcuni gruppi sostengono che bisogna andare avanti attenuando le novità ambientali con soluzioni tecniche, le meno ecologicamente offensive possibili. Il verbo di questa corrente di pensiero è rappresentata dalla parola magica “sostenibile”.

E qui gli inquinatori sono contenti perché comunque possono fabbricare automobili ipoteticamente meno inquinanti e plastica ipoteticamente degradabile e sono contenti gli abitanti dei paesi dentro i parchi naturali perché possono avere visitatori e qualche posto di lavoro, magari con costruzioni ben progettate, magari con la possibilità di praticare un po’ di caccia al margine delle zone protette.

Altri sostengono che l’aria pulita e le bellezze del paesaggio sono valori in se, indipendentemente dagli affari dei fabbricanti di automobili o dal numero di morti o dai pericoli di frane in seguito al diboscamento

E qui i negazionisti hanno buon gioco: voi fautori della decrescita economica siete disposti a rinunciare ai computer e alla posta elettronica --- che fanno crescere i consumi di elettricità e i relativi inquinamenti --- per diffondere il vostro pensiero: siete disposti a diffondere il pensiero della vita conviviale a chi abita nelle periferie di Napoli o di New York o di Calcutta ?

Perché il vero problema non è tanto sulle maggiori o minori virtù ecologiche della carta riciclata, degli inceneritori o dei motori eolici, quanto nel fatto che tutto il dibattito finora esposto riguarda non sessanta milioni di italiani, o seicento milioni di europei e americani industrializzati, ma riguarda tremila milioni di indiani, cinesi e asiatici di sud-est e ottocento milioni di africani che si stanno appena affacciando o sono ancora lontanissimi dai consumi occidentali e non desiderano altro che possedere quelle merci che gli vengono proposte dalle pubblicità televisive che ormai raggiungono anche i remoti villaggi africani e asiatici.

Lo si è visto quando centinaia di milioni di persone sono uscite dalle austere --- anche se ecologicamente non virtuose --- società comuniste e si sono scatenate nella società dei consumi.

E’ il trionfo del negazionismo ecologico: voi state a giocherellare se le pale degli aerogeneratori uccidono gli uccelli e noi --- potere economico, industriale e finanziario --- costruiamo centrali nucleari, ricicliamo schede di computer inquinando il suolo, i fiumi e il mare, cioè quegli ambienti naturali da cui vengono le fragole o i pesci o gli oggetti che trovate nei negozi e nei mercati.

All’alba dell’ecologia, nel 1970, si scriveva e leggeva che la Terra è una sola grande unità planetaria, governata dalle ineluttabili leggi dell’ecologia e dei suoi cicli naturali, che rappresenta la nave spaziale dell’intera umanità, che andavano sottoposte a revisione le scelte economiche e politiche, alla luce dei vincoli che l’ecologia pone. A 35 anni di distanza sembra trionfare l’impero della violenza ecologica. Le leggi nazionali ed europee sono scritte per nuocere il meno possibile al mondo degli affari, con una leggera patina di apparente rispetto per i diritti alla salute.

Il dibattito sul pianeta, sul clima, sulla demografia (aumento della popolazione in alcuni paesi e invecchiamento in altri), sulla qualità delle merci, sugli equilibri ecologici, è assente nella politica tutta schiacciata su parole magiche --- competitività, andamento del prodotto interno lordo, innovazione --- e manca qualsiasi indicazione su come queste categorie filosofiche si traducono nelle cose che hanno effetti ambientali: i cereali, il ferro, la benzina, la plastica, il legno, i divani, le scarpe, gli strumenti della microelettronica, eccetera.

E’ disperata la situazione ? Il negazionismo vince sempre ? No, il mondo va avanti proprio con persone, spesso originariamente poche, che propongono nuovi diritti e valori che diventano poi valori condivisi (quasi) universalmente; la storia mostra che le tesi dei negazionisti e dei loro lacché anche scientifici alla fine sono sconfitte, ma nella battaglia per nuovi diritti bisogna tenere conto del negazionismo e non è male conoscere i volti in cui si è presentato nel cammino dell’umanità e si presenterà in futuro.

Da questo punto di vista la storia della contestazione e del negazionismo ecologici offre interessante materiale di studio.

mercoledì 16 settembre 2009

Per un mondo senza bombe nucleari

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 8 settembre 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L’ambiente sarebbe certo migliore se venisse eliminata la spada di Damocle delle bombe nucleari, sospesa da tanti anni sulla testa dell’umanità come immane possibile tragedia ecologica. Quest’anno in agosto la ricorrenza dei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki è passata quasi sotto silenzio, ma le bombe atomiche, figlie di quelle due che nel 1945 distrussero 200.000 vite umane nelle due città giapponesi, non sono affatto scomparse, anzi sono lì, negli arsenali noti e in quelli segreti, e le fabbriche lavorano freneticamente per tenerle sempre pronte all’uso e per inventarne di nuove: 10.000 bombe nucleari negli Stati Uniti, circa 15.000 nella Russia e un numero imprecisato negli altri stati nucleari: Cina, Francia, Regno Unito, Israele, Pakistan, India, alcune pronte a partire entro pochi minuti, bombe sparse dovunque, alcune diecine di bombe americane collocate anche in Italia.

Negli anni scorsi è sembrato che potesse partire una campagna mondiale per il disarmo nucleare: un mondo senza bombe nucleari fu invocato nel gennaio 2007 da Kissinger e altri statisti americani; nel giugno 2008 da statisti inglesi; nel luglio 2008 dagli italiani D’Alema, Fini, La Malfa, Parisi e Calogero; nell’ottobre 2008 dal Segretario generale delle Nazioni Unite; nel corso della campagna elettorale e dopo il suo insediamento nel gennaio 2009, dal presidente degli Stati Uniti; nei giorni scorsi dal Consiglio Mondiale delle Chiese a Ginevra; in varie occasioni dal Papa. Invece i progressi verso un mondo senza bombe atomiche sono lentissimi. Le bombe nucleari sono di due tipi principali, basate su diversi materiali e processi produttivi.

Le bombe a fissione sono basate sulla liberazione di grandissime quantità di calore in seguito alla rapidissima “frantumazione” (“fissione”, appunto) dei nuclei di plutonio; il principio è lo stesso della liberazione di calore nelle centrali nucleari nelle quali, invece la “fissione” dei nuclei di uranio e plutonio è lenta e controllata in modo da utilizzare il calore liberato per azionare le turbine che producono elettricità. Il plutonio per le bombe atomiche è recuperato come sottoprodotto del funzionamento delle centrali nucleari o è “fabbricato” con speciali reattori partendo da uranio “arricchito” nell’isotopo 235 mediante processi di centrifugazione lenti e costosi.

L’altro tipo di bombe è quello a fusione nelle quali la liberazione di calore è ottenuta mediante riscaldamento ad altissima temperatura e pressione di una miscela di deuterio e trizio, le due forme dell’idrogeno più “ricche” di neutroni, rispettivamente due e tre, rispetto ad un solo neutrone presente nell’idrogeno ordinario. Il deuterio e il trizio si preparano con costosi e complicati processi chimici e nucleari industriali e l’innesco della reazione di fusione, termonucleare, è provocato dalla fissione del plutonio. Le bombe termonucleari possono essere fabbricate con potenze distruttive grandissime, di alcuni “megaton” (la potenza distruttiva di alcuni milioni di tonnellate del potente esplosivo tritolo) fino a dimensioni con potenza distruttiva di “appena” alcune diecine di chiloton (un chiloton è la potenza distruttiva equivalente a quella di mille tonnellate di tritolo). Le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano ciascuna una potenza di circa 15 chiloton.

Si può stimare che le bombe nucleari dei vari “modelli” abbiano complessivamente una potenza distruttiva uguale a quella di circa un miliardo di tonnellate di tritolo, duecento chili di tritolo per ogni abitante della Terra, donne, uomini, bambini. Gli otto paesi nucleari “ufficiali”giustificano le loro bombe atomiche con il principio della deterrenza: se un paese volesse aggredirli saprebbe di essere destinato all’immediata vendetta e distruzione, e sostengono che la deterrenza ha finora impedito una guerra nucleare. Ma molti paesi del mondo si chiedono: “perché in otto possono avere le bombe nucleari e noi no ?”. Iran e Corea del Sud, per esempio, sono accusate di volersi dotare anche loro, proprio per questo motivo, di armi nucleari.

Sono stati fatti vari tentativi di accordo sul disarmo nucleare; nel 1991, dopo la fine dell’Unione Sovietica, la Russia e gli Stati Uniti firmarono l’accordo START I che li impegnava alla graduale diminuzione delle testate nucleari “strategiche”, definite come quelle montate su missili intercontinentali, capaci di scavalcare gli oceani, e su missili trasportati da sottomarini; una qualche diminuzione c’è stata. Oggi ci sono “soltanto” meno di 3000 bombe nucleari “strategiche” negli Stati Uniti e circa 4000 in Russia. L’accordo START I scade fra poche settimane, il 5 dicembre 2009, nel silenzio e disinteresse generale; nessuno sa quale seguito avrà. Le apparenti buone intenzioni di disarmo nucleare sono vanificate dai potenti interessi del complesso militare industriale che assicura diecine di migliaia di posti di lavoro e enormi guadagni.

Così, nel nome del profitto, vengono dissipate grandissime quantità di denaro che potrebbe, se impiegato altrimenti, liberare il mondo dalla fame e dalla sete e dalla violenza terroristica. Inoltre i soldi risparmiati con l’eliminazione delle armi nucleari potrebbero essere utilmente impiegati per l’eliminazione della coda avvelenata della corsa alle bombe nucleari; l’enorme massa di materiali radioattivi che, quando le bombe nucleari fossero definitivamente eliminate, dovrebbero essere resi inerti e sepolti con tecniche ancora più complicate di quelle, già complicate, richieste dall’eliminazione delle scorie radioattive delle centrali nucleari commerciali; ci sarebbe, ci sarà, lavoro per milioni di persone, scienziati, tecnici, operai, per eliminare la mortale eredità che la follia di tanti decenni ha predisposto per le generazioni future.

mercoledì 2 settembre 2009

Il mare intorno a noi

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 1 settembre 2009

Il mare intorno a noi

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

I turisti hanno fatto o stanno finendo di fare le valigie per tornare a casa, lasciando spesso sporco e violentato il mare in cui hanno sguazzato per alcuni giorni. Se vogliamo che l’anno venturo la situazione sia migliore, bisogna che i responsabili, e noi tutti, si prendano provvedimenti politici, economici, tecnici e culturali, per i quali restano pochissimi mesi; altrimenti ci troveremo anche l’estate ventura a piagnucolare per le alghe puzzolenti, la plastica galleggiante, gli escrementi e i mozziconi di sigarette sparsi vicino alle spiagge, la puzza di benzina che accompagna i gommoni, i motoscafi e le moto d’acqua che sfrecciano lungo le coste.

Giustamente, nel 2006, col II governo Prodi, il Ministero dell’ambiente ha voluto aggiungere, fra le sue finalità, oltre alla difesa del territorio anche quella “del mare”, riconoscendo che il mare non è solo la base delle attività della “Marina mercantile”, non è solo l’autostrada per le navi da trasporto di merci e passeggeri, non è solo la sede di porti e della nautica o pesca commerciale, attrazione del turismo e quindi di lavoro e di ricchezza, ma è il grande, anzi il più grande territorio dell’ambiente, sede e fonte di vita.

Nei dieci mesi che ci separano dalla prossima stagione turistica credo che i governanti potrebbero utilmente leggere (spero “rileggere”) il bel libro: “Il mare intorno a noi” scritto nel 1951 dalla famosa biologa americana Rachel Carson (1907-1964, l’autrice del più noto libro: “Primavera silenziosa”). Il libro fu tradotto in italiano dall’editore Casini e poi da Einaudi, e sarebbe utile che fosse letto nelle scuole, a cominciare da quelle elementari e medie, quando i ragazzi sono ancora disposti a meravigliarsi. Opportunamente la televisione di Stato trasmette documentari con belle immagini di vita marina, ma bisognerebbe che gli spettatori si rendessero conto che non si tratta soltanto di roba da mari tropicali; la vita e la bellezza del mare riguardano qualcosa che è “intorno a noi”, nascosto anche nelle pozze di acqua salina che si formano sulle spiagge e nelle rocce costiere, nello sciacquio del mare avanti e indietro.

Questa vita marina, che dovrebbe essere difesa gelosamente perché da essa dipende, direttamente e indirettamente, anche la nostra vita e salute, viene offesa continuamente e, quando è uccisa, si lascia dietro organismi putrefatti e puzzolenti. Nei giorni scorsi i giornali hanno riferito che i Carabinieri hanno sorpreso gli operai di una azienda di autospurgo --- sapete, quei camion che svuotano i pozzi neri delle case e degli alberghi e portano via i liquami che dovrebbero essere svuotati in adatti depuratori --- stavano scaricando la loro cisterna nel mare di Capri; la storia ha fatto scandalo perché si trattava di Capri, ma quante altre migliaia di camion pieni di liquami vengono scaricati, zitti zitti, nel mare lungo le coste e nessuno li vede e nessuno ne parla, come se il mare di Capri fosse qualcosa di speciale, così turisticamente e commercialmente pregiato, e tutto il resto del mare che lambisce gli ottomila chilometri di coste italiane fosse una tollerabile discarica delle (scusate il termine) merde nazionali.

Ogni anno, d’estate e d’inverno, nei mari italiani finiscono circa cinquecento miliardi di litri di acque di fogna non trattate contenenti non solo gli escrementi umani, ma tutto ciò che fuoriesce dai gabinetti, lavandini, lavatrici, fabbrichette, allevamenti zootecnici, ristoranti, canalette di scolo agricole, acque ricche di detersivi, pesticidi, concimi, medicinali non usati, e tanti altri veleni per la vita marina. E non si tratta semplicemente della morte di alcuni degli esseri viventi del mare, non si tratta dei turisti che, indignati, lasciano le spiagge alla ricerca di mari più puliti, dei pescatori che vedono diminuire il pescato e il loro reddito, ma si tratta di alterazioni dei delicati equilibri del mare che cominciano con le alghe fotosintetiche, gli alimenti per lo zooplancton, a sua volta nutrimento per tutti gli altri esseri viventi marini alcuni dei quali arrivano sulle nostre tavole.

Dieci mesi prima dell’estate 2010 sono pochi per mettere ordine nei depuratori delle acque usate sparsi per l’Italia e non funzionanti e per costruirne altri funzionanti, ma credo che si tratti delle prime e più urgenti infrastrutture a cui mettere mano: strade e ferrovie ad alta velocità serviranno a poco se i turisti vanno a fare il bagno altrove. E’ probabilmente lodevole, ai fini dell’economia cantieristica, incoraggiare la vendita di barche, da quelle piccole a quelle grandi e grandissime che parcheggiano nei porti turistici, talvolta sfacciate esibizioni di opulenza guadagnata con soldi nascosti alle tasse italiane, talvolta cialtronesche manifestazioni di rumore e puzza come quelle degli scooter d’acqua; però non si può tollerare che nautica significhi sporcizia e inquinamento per chi deve accontentarsi di bagnarsi nel mare. Ci sono leggi di polizia marittima che stabiliscono che non si deve circolare a motori accesi ad una certa distanza dalle coste, sia per la sicurezza delle persone, sia per spostare il più lontano possibile fumi e scarichi di benzina, ma tali leggi sono continuamente violate, anzi le violazioni sono viste quasi con benevolenza, giovanili manifestazioni sportive. E ancora: il mare è compromesso dalle costruzioni che arrivano e portano in loro rifiuti proprio in riva al mare, anche nelle zone che la legge, e le minime norme di difesa del mare, vorrebbero sgombre da cemento e asfalto.

Ma alla radice di tutte le violenze al mare sta un distorto senso della proprietà: se uno venisse a versare il vaso da notte nel salotto della casa di ciascuno di noi ci indigneremmo e lo denunceremmo; se lo fa nel mare nella maggior parte dei casi nessuno dice niente. La salvezza della salute individuale sarà possibile soltanto quando ci renderemo conto che il mare è “proprietà” di ciascuno di noi, è un pezzo della nostra casa e del nostro salotto e come tale va rispettato e trattato.

venerdì 14 agosto 2009

Ritorneranno ?

Villaggio Globale, 11, (43), settembre 2008
http://www.vglobale.it/VG/Articoli.php?UID=2620&nuid=46&suid=243

Giorgio Nebbia


Il 22 maggio 2008 è una data storica. Un ministro del IV governo Berlusconi ha annunciato, davanti all’assemblea della Confindustria, che il governo italiano prevede la costruzione “di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione” capaci di “produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente”, la cui “prima pietra” dovrebbe essere posta entro il 2013.

E’ una storia già sentita: era il 1975, qualche mese dopo il primo aumento del prezzo del petrolio, la prima grande paura della scarsità di energia. Il 29 luglio 1975 venne presentato al CIPE, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, il documento RES(75)31, redatto dal Comitato Nazionale Energia Nucleare, intitolato “Programma Energetico Nazionale” (sarebbe poi stato indicato come PEN). Negli anni precedenti 1973-1974 l’ENEL, allora unico gestire dell’elettricità, aveva ordinato quattro centrali nucleari da 1000 megawatt ciascuna destinate due a un qualche posto nell’Alto Lazio (sarebbe poi stato Montalto di Castro) e due per il Molise (si era parlato di Campomarino vicino Termoli).

Per spiegare tale decisione il PEN presentava varie previsioni dei consumi di energia italiani. Per la copertura dei fabbisogni elettrici dal 1982 al 1985 il PEN prevedeva la entrata in servizio di nuovi impianti nucleari per una potenza da 13.000 a 19.000 megawatt (a seconda della tendenza dei consumi) in modo che la potenza nucleare in servizio nel 1985 avrebbe dovuto essere compresa fra un minimo di 20.400 e un massimo di 26.400 megawatt.

Il PEN prevedeva che nel quinquennio 1986-1990 entrassero in servizio altri nuovi impianti nucleari per una potenza compresa fra 26.000 e 36.000 megawatt. “La potenza degli impianti nucleari in sevizio nel 1990 --- prosegue il testo citato --- sarà pertanto compresa fra un minimo di 46.100 MW e un massimo di 62.100 MW”. “I vantaggi di costo esistenti a favore della produzione di un kWh di origine elettronucleare, rispetto ad un kWh di origine termoelettrica sono al momento attuale --- era scritto nello stesso PEN del 1975 --- innegabili e difficilmente essi potranno essere cancellati in futuro”.

Dove mettere tante centrali nucleari ? Niente paura, nel paragrafo 3.3.2 del PEN citato è scritto che l’ENEL era “pervenuto ad individuare le seguenti aree geografiche del Paese nelle quali le indagini preliminari hanno fornito indicazioni sulla esistenza di luoghi adatti alla installazione delle nuove centrali nucleari, oltre a quelle già previste per l’ubicazione delle quattro unità ordinate nel 1973-74 (Alto Lazio e Molise):
--- Arco Alpino Lombardo
--- Piemonte orientale
--- Costa Jonica (Basilicata)
--- Lombardia Orientale
--- Costa dell’Alto Tirreno (Toscana centrale)
--- Costa del Basso Tirreno (Campania)
--- Costa Marchigiana Meridionale o Abruzzo
--- Arco Alpino Piemontese
--- Costa dell’Alto Adriatico (Romagna settentrionale)
--- Costa del Medio Tirreno (Lazio meridionale)
--- Costa della Venezia Giulia
--- Costa meridionale della Puglia (Jonica o Adriatica)”.

Le procedure per le autorizzazioni erano state definite nel DPR 185 del 1964 e quelle per la localizzazione delle centrali nucleari erano fissate dalla Legge 393, approvata il 2 agosto 1975. Un lavoro a tambur battente: 29 luglio presentazione del PEN al CIPE, 2 agosto legge sulle localizzazioni, 23 dicembre approvazione del PEN da parte del CIPE.

Le cose non andarono però tanto lisce; ben presto apparve che le previsioni dei fabbisogni elettrici erano esagerate, che i soldi richiesti per costruire un così grande numero di centrali nucleari non c’erano, che molte località destinate ad ospitare le centrali nucleari si ribellarono alla violenza proposta al loro territorio, a cominciare dal Molise. Si era messa in moto, superando peraltro dure contestazioni, la centrale da 2000 megawatt di Montalto di Castro.

Ci son state molte altre sceneggiate intermedie; la proposta di costruire un impianto di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa, Coredif, alimentato da quattro centrali nucleari da 1000 megawatt ciascuna, da collocare in qualche posto, o a Pianosa o a San Pietro Vernotico, in Puglia, saltata prima che si cominciasse a parlarne. Qualcuno propose di costruire una centrale nucleare sulla Murgia, in Puglia, pompando l’acqua di raffreddamento dal mare. L’ENEL intervenne con un terzo del capitale nella costruzione del reattore “veloce” francese Superphenix, “raffreddato” a sodio metallico. L’Italia partecipava con il 25 % al capitale dell’impianto francese di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa Eurodif, in cambio del diritto di ottenere uranio arricchito. Qualcun altro pensava alla costruzione di una nave a propulsione nucleare e forse magari ad una bomba atomica.

Nello stesso tempo si moltiplicavano manifestazioni, petizioni, proteste e anche critiche tecnico-economiche al vecchio programma energetico. Cito, per tutte, la “dichiarazione” datata 27 marzo 1976 su cui Italia Nostra raccolse in tutta Italia alcune migliaia di firme fra cui quelle prestigiose di Giorgio Bassani, Elena Croce, Antonio Cederna, Adriano Bjuzzati Traverso (e anche da me).

“Di fronte ai programmi di sviluppo della produzione di energia nucleare adottati dalle pubbliche autorità i sottoscritti cittadini ritengono che si tratti di decisioni estremamente azzardate assunte senza le necessarie cautele e senza la cosciente partecipazione della popolazione e dichiarano quanto segue:

1. L'energia elettrica ottenuta per via nucleare non è né economica, né pulita, né sicura.

2. Le valutazioni della presunta convenienza economica sono state fatte sulla base di costi degli impianti non aggiornati che non tengono conto delle spese necessarie per la custodia e lo smaltimento dei residui radioattivi e degli impianti fuori uso ineliminabili.

3. La scelta nucleare proposta condanna ugualmente l' Italia ad una dipendenza, inevitabile in ogni grande processo produttivo, da capitali stranieri e da brevetti, forniture e tecnologia, detenuti da pochi gruppi monopolistici, con tutte le conseguenze politiche e che ne derivano; tale scelta crea, anzi, condizioni peggiori di quelle attuali di dipendenza da combustibili tradizionali che almeno sono intercambiabili fra loro e possono essere acquistati su mercati diversi.

4. La scelta nucleare implica altresì rischi di incidenti catastrofici di portata e scala imprevedibili, che possono essere determinati anche da sabotaggi: variazioni climatiche e alterazioni agli ecosistemi naturali, che possono derivare dal grave inquinamento termico; la produzione di crescenti quantità di sottoprodotti radioattivi altamente pericolosi e difficilmente conservabili in maniera sicura.

5. Alcuni di questi sottoprodotti radioattivi costituiscono la materia prima per le bombe atomiche cosicché la scelta nucleare contribuisce alla diffusione degli armamenti e alla instabilità internazionale contraria agli interessi della pace.

6. I problemi prioritari dell'occupazione non trovano alcuna soluzione con la semplice moltiplicazione dei consumi e con la produzione di grandi quantità di energia, che favorisce solo lo spreco e lo sviluppo di industrie ad alto impiego di capitale e di energia per addetto.

Tutti questi problemi sono tenuti nascosti nel programma energetico nazionale impedendo alla popolazione di assumere una chiara coscienza dei rischi, delle conseguenze e delle possibili alternative che sono connesse alla politica energetica in corso.

Pertanto, i sottoscritti chiedono che le ipotesi di sviluppo del consumo di energia vengano rivedute, tenendo conto delle maggiori possibilità di occupazione offerte da una politica di risparmio dell'energia e dopo aver chiarito come, cosa si intende produrre e per chi.

Domandano, infine, che venga sospesa l'approvazione del programma nucleare e che gli altissimi investimenti previsti per le centrali nucleari, ben più alti di quelli indicati all'opinione pubblica, vengano utilizzati in opere pubbliche ad alto impiego di mano d’opera, con priorità per i servizi collettivi relativi alla difesa del suolo e alla riforestazione, all'educazione, alla salute, alle abitazioni e vengano impiegati per ricerche dirette alla migliore utilizzazione e al risparmio dell'energia disponibile e all'impiego di fonti di energia alternativa.

In risposta a questo movimento la Commissione Industria della Camera, presieduta dall'on. Fortuna, avviò una indagine conoscitiva che durò dal novembre 1976 all'aprile 1977 e che, nel maggio 1977, produsse un documento destinato al governo e al CIPE.

La conclusione fu la decisione di costruire subito soltanto 12-13 centrali nucleari, invece di venti, e altre otto da avviare entro il 1985. Infine nel dicembre 1977 veniva approvato dal CIPE un secondo «programma energetico nazionale». Nel 1979 l’ENEA/Disp aveva pubblicato un documento denominato “Carta dei siti” che indicava le possibili zone in cui localizzare le centrali.

Arrivarono però eventi tempestosi; nel marzo 1979 ebbe luogo l’incidente al reattore americano di Three Mile Island; non morì nessuno (almeno per il momento) ma la favola della sicurezza delle centrali nucleari venne messa in discussione; il governo fu costretto a indire una indagine sulla sicurezza nucleare che espose i risultati in una grande conferenza a Venezia nel gennaio 1970. Apparve così che le norme internazionali sulla sicurezza nucleare erano più rigorose di quanto si pensasse e questo offrì sostegno agli oppositori delle centrali nucleari che nel frattempo si erano moltiplicati, non solo come associazioni ambientaliste, ma anche come popolazioni dei luoghi in cui era prevista la costruzione delle centrali.

Nel luglio 1981 il ministro dell’industria Pandolfi rese noto un terzo piano energetico nazionale. Gli obiettivi prevedevano che nel decennio degli anni ottanta entrasse a pieno in funzione la centrale di Caorso (850 megawatt), entrassero in funzione le due unità da 1000 megawatt ciascuna di Montalto di Castro, venissero costruite ed entrassero in funzione altre quattro unità da 1000 megawatt ciascuna.

Negli stessi anni l’Italia dovette ridurre dal 25 al 16,5 % la sua partecipazione all’impianto Eurodif e dovette svendere una parte dell’uranio arricchito per cui l’Italia si era già impegnata e di cui non aveva più bisogno in seguito al ridimensionamento delle prospettive iniziali.

Quanto alle zone in cui localizzare le altre dodici future centrali nucleari, previste come “unità standard”, di reattori ad acqua sotto pressione PWR Westinghouse, si legge nel PEN del 1981 che i siti possibili risultano:
--- Piemonte: centrale nucleare con due unità standard in una delle due aree già individuate lungo il corso del Po;
--- Lombardia: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nella Lombardia sud-orientale (sarebbero poi state Viadana e San Benedetto Po):
--- Veneto: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nel Veneto sud-orientale;
--- Toscana: centrale nucleare con due unità standard nell’Isola di Pianosa;
--- Campania: centrale nucleare con una unità standard lungo l’ultimo tratto del fiume Garigliano;
--- Puglia: centrale nucleare con due unità standard in una delle aree già individuate nel Salento (sarebbero state Avetrana e Carovigno);
--- Sicilia: centrale nucleare con una unità standard in una delle due aree già individuate nel Ragusano.

Il programma ebbe breve vita; il primo atto della commedia del nucleare in Italia si chiuse praticamente dopo la catastrofe al reattore nucleare di Chernobyl (aprile 1996) a cui fece seguito il referendum del novembre 1987 che fermava le costruzioni e chiedeva l’uscita dell’Italia dal reattore Superphenix.

A parte la chiusura delle vecchie centrali di Latina, di Trino Vercellese e del Garigliano, alla fine dell’avventura nucleare si aveva:
Caorso: centrale avviata nel 1981, fermata nel 1986; il combustibile irraggiato è depositato in una piscina;
Montalto di Castro: centrale ordinata nel 1973; avvio dei lavori nel 1988; sospesa la costruzione nel 1988; trasformata in una centrale termoelettrica a metano/olio combustibile
Quanto al reattore Superphenix non ci fu bisogno del referendum per uscirne. La produzione di elettricità era iniziata nel 1985; il reattore aveva incontrato vari incidenti nel 1990; e la centrale fu chiusa nel 1997, con la perdita netta dei soldi ENEL, cioè dei cittadini italiani, in tale impresa.

Quanto alle scorie radioattive che si stavano formando, i vari PEN citati consideravano il problema della loro sistemazione qualcosa da decidere in futuro. Oggi le scorie sono ancora in gran parte dove erano allora, con l’aggiunta dei materiali radioattivi provenienti dal graduale smantellamento delle vecchie centrali. Risultava insomma confermato quello che in tanti avevano detto: l’energia nucleare non è economica, non è sicura e non è pulita.

La passione per il nucleare è rimasta dormiente per tanti anni. “Finalmente” si è risvegliata “grazie” alla scoperta dell’effetto inquinante dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche a combustibili fossili e responsabile dei mutamenti climatici, e “grazie” all’aumento del prezzo del petrolio. Si arriva così alla svolta storica a cui facevo cenno all’inizio, con le stesse illusorie parole di allora: gruppo di centrali nucleari, promessa di grandi quantità di energia, promessa di basso costo dell’elettricità, rispetto dell’ambiente.

E’ il secondo atto della commedia del nucleare italiano. Di centrali cosiddette “di nuova generazione”, cioè con maggiore sicurezza e minore inquinamento, ce ne sono varie disponibili in commercio: peraltro non se ne acquista una come si sceglierebbe una automobile. Immagino che il governo pensi alle centrali nucleari cosiddette “di terza generazione” (EPR3) della potenza di circa 1600 megawatt. Ne esistono due, una finlandese ad Olkiluoto, a metà del suo cammino costruttivo, una in Francia a Flamanville, nel nord della Francia (in costruzione da qui al 2012 e oltre), con la partecipazione finanziaria del 12,5 % dell’Enel.

Si tratta di centrali ad acqua leggera funzionanti con acqua sotto pressione a ciclo uranio-plutonio, alimentate con uranio arricchito a circa il 5 % di uranio-235. Il calore che si libera dalla fissione dell’uranio-235 viene trasferito ad una massa di acqua sotto pressione a circa 150 atmosfere e circa 300 gradi che circola in un circuito “primario” di tubazioni, e viene poi trasferito ad altra acqua (circuito “secondario”) che si trasforma a sua volta in vapore e fa girare le turbine del generatore di elettricità.

Un flusso di acqua di raffreddamento (circa 70 metri cubi al secondo, quasi un fiume, di acqua marina che ritorna, scaldata, nel mare, da cui si deve produrre anche acqua distillata per dissalazione per l’alimentazione delle caldaie) trasforma di nuovo il vapore in uscita dalle turbine in acqua liquida che torna nella caldaia del circuito secondario. In queste centrali l’acqua del circuito primario del reattore, radioattiva, non viene a contatto con l’acqua del circuito secondario. Secondo quanto è noto, il reattore utilizzerà circa 30 tonnellate all’anno di uranio arricchito; il combustibile irraggiato estratto ogni anno conterrà plutonio (circa 300 kg all’anno) e altri elementi di attivazione radioattivi e i prodotti di fissione, circa 1000 kg all’anno, fra cui cesio, stronzio e altri, tutti radioattivi. La produzione di elettricità dovrebbe essere circa 10 milioni di megawattore all’anno (circa 10.000 GWh all’anno; la produzione italiana di elettricità è di circa 350.000 GWh/anno).

I reattori di nuova generazione scoppiano come quello di Chernobyl ? Molto probabilmente no perché sono circondati da un doppio involucro di protezione di cemento armato e sono dotati di speciali accorgimenti di raccolta del fluido del reattore, nel caso si verificasse una frattura nella zona contenente la radioattività.

Non voglio discutere la promessa di elettricità a costi competitivi: chiunque ha pratica di analisi dei costi di produzione di una merce, nel nostro caso l’elettricità, sa bene come si possano avere risultati diversissimi a seconda di come si calcolano i costi di impianto, la politica di ammortamento degli investimenti, i costi della materia prima; nel caso delle centrali il costo del minerale di uranio, dell’arricchimento, dell’energia utilizzata nella varie fasi, i costi dello smantellamento degli impianti, i fattori di utilizzazione, e questo per l’elettricità di origine nucleare rispetto a quella ottenuta da altre fonti, fossili o rinnovabili che siano. Con opportuni artifizi contabili il “costo” di una merce ottenuta con un processo può risultare inferiore o superiore al costo della stessa merce ottenuta con un altro processo.

Qui voglio considerare invece se la localizzazione, la costruzione e il funzionamento delle eventuali future centrali nucleari avverrà o no “nel rispetto dell’ambiente”. Sono circolate notizie su possibili “siti” in cui le centrali potrebbero essere costruite, con nomi presto smentiti, anzi con la precisazione che le relative notizie vere saranno coperte dal segreto di Stato ai sensi del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 aprile 208, entrato in vigore il 1 maggio.

La scelta di una località adatta per “ospitare” una centrale nucleare presuppone alcune conoscenze: prima di tutto occorre sapere quante centrali e di quale tipo si prevede la costruzione. Già le poche cose dette sulle centrali “di nuova generazione” indicano che il reattore, il circuito delle turbine, gli impianti di presa e di circolazione dell’acqua di raffreddamento, sono grosse strutture, del volume di circa un milione di metri cubi, che contengono una massa di cemento, acciaio e materiali vari di circa un milione di tonnellate, su una superficie di una ventina di ettari.

La centrale deve essere installata in una zona dove è disponibile molta acqua di raffreddamento (dato lo stato e la portata dei nostri fiumi, l’unica soluzione è data dall’uso dell’acqua di mare), su suolo geologicamente stabile e senza rischi di terremoti: i due reattori in costruzione, quello finlandese e quello francese, sono collocati in due promontori di rocce granitiche in riva al mare. Una eventuale centrale dovrebbe essere vicino ad un grande porto perché una parte dei macchinari deve essere importato via mare; il contenitore del reattore finlandese è stato costruito in Giappone.

Qui comincia il lavoro degli analisti del territorio; si tratta di percorrere le coste italiane e vedere se si trova una zona adatta per una o per “il gruppo” di centrali annunciate. Ci sono naturalmente molti altri fattori da considerare partendo dalla vecchia (1979) “carta dei siti” ritenuti idonei alla localizzazione delle centrali nucleari allora previste, che erano più piccole e con minori vincoli di localizzazione. Già allora, comunque, le norme internazionali indicavano la necessità di avere, intorno alle centrali nucleari, una zona di rispetto del raggio di circa 15 chilometri nella quale non dovevano trovarsi città o paesi, strade di grande comunicazione e ferrovie, impianti industriali, depositi di esplosivi, installazioni militari.

Anche se la, o le, localizzazioni delle nuove centrali saranno coperte dal segreto di Stato, ci sarà pure un giorno --- il governo ha dichiarato che i “siti” per le future centrali saranno individuati entro il 2008 --- in cui i cittadini di una qualche zona d’Italia vedranno arrivare sonde e geologi e ruspe e recinzioni e gli amministratori locali dovranno fare i conti con autorizzazioni e espropri. Sarà quello il tempo in cui gli abitanti delle zone interessate vorranno interrogarsi su quello che sta succedendo, sulla propria sicurezza futura, sul destino delle acque sotterranee e delle spiagge e coste. Non sarà il segreto o il controllo militare a impedire ai cittadini di informarsi, di leggere le carte geologiche e la frequenza dei terremoti, le norme internazionali di sicurezza delle centrali.

Un’ultima osservazione voglio fare sulla promessa compatibilità ambientale dell’energia nucleare, soprattutto in relazione alla sistemazione delle scorie nucleari, a cominciare dal “combustibile irraggiato”, le barre di uranio estratte dai reattori dopo uno o due anni di funzionamento e contenenti uranio-238, una parte residua di uranio-235, elementi transuranici e prodotti di fissione. Si tratta di materiali diversissimi chimicamente, con differenti tempi di dimezzamento (il tempo durante il quale perdono metà della radioattività originale), che vanno posti in depositi che vanno tenuti sotto controllo per mesi, o per anni e decenni o per migliaia di anni. La loro pericolosità per la vita varia a seconda della composizione chimica e della radioattività che a sua volta varia continuamente nel tempo. Il combustibile irraggiato deve restare per anni in adatte “piscine” nelle quali perde una parte della radioattività generando calore, per essere poi “ritrattate” per separare le varie componenti, le vere e proprie scorie, o sepolte per tempi lunghissimi.

Dove mettere le scorie radioattive esistenti, note e inventariate e quelle che continuamente si stanno formando ? La risposta ragionevole è: nessuno lo sa. In giacimenti scavati nel granito ? nelle miniere di sale abbandonate (ricordiamo la commedia della proposta governativa di depositare i rifiuti a Scanzano Ionico) ? in terreni argillosi ? in fondo al mare ? nello spazio interplanetario, lanciate da speciali missili ? Pochi problemi tecnico-scientifici hanno avuto risposte fantasiose e illusorie come quello dello smaltimento delle scorie nucleari.

Con le scorie radioattive dovremo convivere per tutta la vita e anzi la loro quantità tenderà a crescere e assumerà, col passare del tempo, anche nuovi caratteri. Possiamo seppellire le scorie radioattive in qualche deposito per il quale possiamo chiedere alle generazioni future una sorveglianza affidabile ? La risposta è “no”. Il grande fisico, pur fautore dell’energia nucleare, Alvin Weinberg, scrisse: “Noi nucleari proponiamo un patto col diavolo; possiamo fornire energia a condizione che le società future assicurino una stabilità politica e delle istituzioni quali mai si sono avute finora”. E, guardandosi intorno, di tali società non esistono certo oggi tracce nel mondo.

In quale maniera sarà possibile avvertire coloro che vivranno fra centinaia e migliaia di anni, accanto ad un deposito di scorie nucleari, che devono continuare a vigilare attentamente perché il materiale depositato non sia esposto a infiltrazioni di acqua, non venga a contatto con forme viventi ? Il plutonio-239 perde metà della propria radioattività ogni 24.000 anni e quindi è ancora radioattivo dopo 200.000 anni. Se si pensa ad una sepoltura che sia sicura e protetta anche solo fra diecimila anni --- un periodo nel quale possono nascere e scomparire interi imperi --- c’è da chiedersi in quale lingua e in quale modo si può mettere un avviso, all’ingresso dei depositi di scorie: “Attenzione: non avvicinatevi”, in quale lingua dovremmo scrivere il messaggio ? con quali segni ? e chi tramanderà la leggibilità di tale avvertimento ?

L’americano Sebeok, uno studioso della comunicazione, ha suggerito che occorrerebbe organizzare una “casta sacerdotale atomica”, di durata eterna, in grado e col compito di tramandarsi nel corso delle 300 generazioni che si susseguirebbero nei diecimila anni, la lingua e il significato di quel cartello apposto sul cimitero delle scorie radioattive e dei residui delle centrali e degli impianti contenenti materiali radioattivi. E poi su quale supporto l’eventuale messaggio custodito dai sacerdoti atomici può essere tramandato a tutti gli abitanti del pianeta per 300 generazioni ? Qualsiasi successo di qualsiasi tecnologia di sepoltura dei materiali radioattivi sembra impossibile e questo conferma la necessità di fermare la diffusione delle centrali e delle attività nucleari, anche considerando lo stretto legame fra nucleare commerciale e militare. A conferma cito per tutti un lungo articolo apparso, col titolo: “I rifiuti eterni (The forever waste)” apparso nel fascicolo del 5 maggio 2008 nella rivista Chemical and Engineering News, (http://pubs.acs.org/cen/coverstory/86/8618cover.html), il settimanale della Società Chimica Americana che non può certo essere tacciata di furore antinucleare o ecologista. La più avanzata proposta di “sepoltura eterna” delle scorie radioattive americane, nel ventre di Yucca Mountain, nel deserto del Nevada, è stata fermata e resterà sospesa per anni.

Vorrei concludere con una modesta considerazione ispirata agli eventi del primo atto dell’avventura nucleare e che affido a coloro che propongono --- e che si opporranno --- al secondo atto di tale avventura, appena iniziata. “Se” i soldi spesi negli anni 1973-1986 per il nucleare --- per la propaganda, per impianti che non sarebbero mai entrati in funzione, per disastri territoriali, per arginare i conflitti popolari --- fossero stati spesi per il potenziamento delle fonti rinnovabili, già mature nei primi anni settanta, per il risparmio energetico, la ristrutturazione produttiva, una nuova urbanistica attenta alla difesa del suolo --- proprio quello che dicevano Italia Nostra già nel 1976 e tanti altri in quegli anni settanta del Novecento --- saremmo oggi il paese più industrializzato e scientificamente avanzato d’Europa. Quante delusioni, quanto tempo e quanti soldi buttati al vento !

giovedì 13 agosto 2009

SM 2853a -- Russell "ecologo" -- 2007

Ovada --- 7-8 luglio 2007

Russell ‘ecologo’

Giorgio Nebbia


Se ci si chiede se Bertand Russell può essere definito “ecologo” nel senso che si da comunemente a questa parola, difensore degli animali o dei boschi, impegnato contro inceneritori o effetto serra, direi che l’aggettivo è inappropriato. Ma se si pensa a Russell come promotore delle idee in cui affondano le vere radici del movimento per i nuovi diritti degli esseri viventi e inanimati, del movimento per eliminare la violenza esercitata contro l’ambiente dalle attività umane, dalla produzione e dal consumo delle merci e in particolare dalle merci e macchine oscene per eccellenza, più antiecologiche, che sono le armi e le armi atomiche --- allora il termine è del tutto appropriato e il pacifismo di Russell è strettamente legato all’impegno di “far piace col pianeta”, secondo il titolo di un libro di Barry Commoner (1917-), altro “ecologo e pacifista”.

Bertrand Russell (1872-1970) è vissuto ed ha operato qualche decennio prima di Commoner e della “primavera dell’ecologia”, databile agli anni sessanta del Novecento. Russell, che tuttavia tale “primavera” ha preparato con i suoi scritti e la sua testimonianza, è stato un intellettuale che ha attraversato tutto il Novecento e alcune delle sue opere fondamentali (più vicine all’”ecologia”) sono state scritte nella prima metà del Novecento e in particolare nella stagione della grande crisi economica e del New Deal. Il suo “Freedom and organization”, noto da noi come “Storia delle idee del XIX secolo”, è del 1934 e il XIX secolo di cui parla presentava tutti i caratteri che sarebbero stati all’origine della crisi ecologica del Novecento, cioè i caratteri dell’industrializzazione selvaggia e della divinizzazione del consumismo.

Russell, da questo punto di vista, a mio parere, va letto insieme, fra l’altro, a “The theory of the leisure class” (1899, 1912) di Thorstein Veblen (1857-1929), a “Luxus und Kapistalismus”, del 1913, di Werner Sombart (1863-1941), insieme a ”Technics and civilization”, dello stesso 1934, di Lewis Mumford (1895-1990).

Un intellettuale del New Deal aveva davanti agli occhi le conseguenze della nascita e crescita della società industriale e della cultura “economica” del tempo. L’attacco sistematico e lo sfruttamento delle risorse naturali si erano manifestati in tutta la loro violenza con la prima rivoluzione industriale che, prendendo l’avvio da una serie di eventi di natura culturale e di scoperte tecnico-scientifiche, stava costruendo una nuova società, quella che Geddes e Mumford chiamarono paleotecnica, fondata sull’uso di nuovi materiali “economici”, come il ferro e il carbone. Le materie della società paleotecnica avevano consentito lo sviluppo dei processi di meccanizzazione applicati alle miniere, alle filature e tessiture, grazie all’importazione del cotone dalle colonie, i processi dell’industria chimica, grazie all’importazione del nitro dal Cile, della gomma dal Brasile, eccetera. La nuova maniera di produrre aveva rapidamente portato la fine della società artigiana e la nascita della società operaia e dell’imprenditore capitalistico.

Con la crescente importanza della macchina, infatti, le attività produttive non erano più basate sull’abilità del lavoratore, ma sul capitale che consentiva l’acquisto delle macchine; l’era paleotecnica era destinata a segnare profondamente la storia della umanità e della natura.

Un osservatore radicale non faceva fatica a riconoscere in tali “perfezionamenti” economici il moltiplicarsi delle morti nelle miniere, dei camini che gettavano fumi e acidi nell’ambiente, soprattutto sulle città e nei quartieri del proletariato che la fabbrica “voleva” accanto a se, portati via dai campi nell’illusoria speranza di migliori salari.

D’altra parte i perfezionamenti delle macchine furono possibili --- e furono determinanti ---per l’assurgere del consumo a ideale dell’uomo; partito dalle corti e dai cortigiani del 1700, questo ideale fu rapidamente assorbito dal ceto borghese. I beni erano rispettabili e desiderabili indipendentemente dalle necessità di vita che potevano soddisfare e le teorie filosofiche ed economiche della nuova era, formulate in base al successo economico, vennero espresse in termini sciali dagli utilitaristi del XIX secolo.

Libertà significava libertà dalle restrizioni agli investimenti privati, libertà di profitto e di accumulazione privata; gli apologeti di questo ordine, da Bernard Mandeville ad Adam Smith, affermavano che essa avrebbe prodotto la massima quantità possibile di benessere e felicità per l’intera comunità mentre in realtà era ispirata soltanto da egoismo, avidità e sete di potere, e determinava un crescente degrado dell’ambiente i cui effetti ricadevano principalmente sulle classi più deboli.

Bertrand Russell definisce impietosamente Bentham, Malthus, Ricardo, Mill, uomini piuttosto poco interessanti, privi del tutto della cosiddetta “visione”, prudenti razionali deducenti con cura, da premesse che erano abbondantemente false, conclusioni che erano in armonia con gli interessi della classe media.

Il risultato fu quello che Mumford chiama l’ “impero del disordine, la società della bruttura e della sporcizia, trascinatasi fino ai nostri giorni con qualche progresso rispetto a quella rappresentata dalla Coketown descritta da Dickens in “Tempi difficili”. Le due anime nere del romanzo, Thomas Gradgrind e Josiah Bounderby, rappresentano le figure tipiche della rivoluzione industriale vittoriana, rigidi datori di lavoro, il primo, la personificazione dell’ideale aggressivo del far soldi, il secondo. La città paleotecnica in cui i protagonisti si muovono --- appunto la Coketown di Dickens --- era il più orribile ambiente umano che il mondo avesse mai visto, mancava di sole, d’aria buona, di acqua pulita, di fognature, circondata dalle catapecchie dei nuovi immigrati.

Se parlavo prima di “qualche progresso” nell’ecologia urbana rispetto a Coketown o alla Chicago di “La giungla” di Upton Sinclair, intendevo riferirmi all’ecologia delle città abitate da mille milioni di terrestre del Nord del mondo, perché per altri quattro o cinque mila milioni di terrestri, nel Sud del mondo, le condizioni non sono molto migliorate, essendo il Nord industriale stato abile nel trasferire le nocività e lo squallore ai poveri del Sud del mondo.

In queste condizioni il lavoro non è più la condizione per trasformare la natura al servizio dell’uomo, ma la schiavitù a cui ci si sottopone per raccogliere quel po’ di denaro che consente un qualche accesso alla società dei consumi imposta come unico modo di essere dal capitalismo. Si capisce così il senso di quel graffiante libretto, del 1935, di Russell sull’elogio dell’ozio che riprendeva e continuava le motivazioni e le considerazioni che qualche decennio prima avevano indotto Lafargue, il genero di Marx, a scrivere un breve saggio sullo stesso tema.

Russell può bene essere compreso come padre intellettuale della contestazione ecologica se si considerano correttamente le vere promesse culturali dell’“ecologia” moderna. Tali premesse affondano, a mio modesto parere, nella critica della società capitalistica, appunto, e delle sue conseguenze culturali e nella critica della società dei consumi, del “negozio”, della frenesia del fare e del produrre e possedere merci, a cui si contrappone l’ozio, il fermarsi.

Ma agli anni della ripresa dalla crisi americana e mondiale altre tempeste seguirono: l’avvento dei fascismi, la guerra di Etiopia e di Spagna, la diffusione di armi e di aerei e l’impiego di aggressivi chimici su una scala quale mai si era vista prima, con il coinvolgimento della popolazione civile, la continua violazione dei patti che i paesi “civili” si erano pur dati alla fine del 1800. Guerra, nel XX secolo, significava anche devastazione di campi, di boschi e di fiumi, fame e sete. Una storia delle conseguenze ambientali delle guerre in tutto il Novecento è forse ancora da scrivere.

Contro alcune delle più vistose forme di violenza militare (e ecologica) troviamo ancora coinvolto il pacifista Russell. La fabbricazione della bomba atomica fu l’inizio della nuova ondata di violenza alla natura, di dimensioni tecnico-scientifiche, ma soprattutto culturali, enormi. La bomba atomica diede per la prima volta all’uomo la sensazione che le forse che potevano essere scatenate con la tecnica avevano dimensioni senza precedenti: le bombe atomiche potevano realizzare la distruzione dell’umanità a milioni di persone per volta e i residui radioattivi potevano disperdersi nell’intera biosfera raggiungendo livelli di pericolosità tali da compromettere la stessa sopravvivenza dell’umanità.

Con la bomba atomica forse per la prima volta si vide che l’inquinamento, in questo caso dovuto alla ricaduta e dispersione dei frammenti radioattivi che si formano durante le esplosioni nell’atmosfera, colpisce le zone vicine all’esplosione, ma anche le zone lontane e circola, attraverso l’atmosfera, per anni, nell’intera biosfera e viene assorbito da popolazioni anche lontane. Non solo. La fabbricazione dei materiali per le bombe nucleari, e anche quella del “combustibile” per i reattori “commerciali”, per gli atomi spacciati “per la pace”, comporta processi chimico-industriali che generano residui radioattivi che conservano la radioattività per decenni, secoli e millenni, che condannano le generazioni future lontane nel tempo a fare la guardia e a tenere sotto controllo depositi che non hanno voluto, da cui non hanno tratto alcun vantaggio “economico”.

Tutto questo ci appare chiaro oggi, ma già nei primi anni cinquanta del Novecento era noto ed evidente l’effetto che le “piccole” bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano fatto sulle due sventurate città giapponesi, ed era chiaro l’effetto devastante anche per l’ambiente e la salute, delle esplosioni sperimentali di bombe atomiche, centinaia di volte più potenti di quelle cadute sul Giappone, che si stavano svolgendo nel mondo da parte delle grandi potenze.
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Dopo le esplosioni delle prime bombe atomiche nel 1945 era sorta violenta la polemica sulla moralità delle nuove armi; tale polemica si fece ancor più accesa negli anni successivi quando gli esperimenti nucleari nell’atmosfera dimostrarono come l’aumento del livello di radioattività della biosfera stesse superando i limiti considerati di sicurezza.

Ci siamo dimenticati tutto ? L’esplosione della prima bomba atomica americana ad Eniwetok, nel 1949, della prima bomba atomica sovietica nel 1949, dell’altra bomba da un megaton, cinquanta volte più potente di quella di Hiroshima, ancora ad Eniwetok, il test Bravo a Bikini con la prima bomba termonucleare da 15 megaton, mille volte più potente di quella di Hiroshima, nel 1954, seguito nel 1955 dall’esplosione della prima bomba a idrogeno sovietica da 1,5 megaton ? Eventi denunciati senza tregua nella stampa e, fra l’altro, nel “Bulletin of the atomic scientists” che aveva iniziato le pubblicazioni proprio nel dicembre 1945.

E’ questa l’atmosfera in cui Russell sollecitò Einstein a scrivere l’appello alla cessazione della corsa atomica, firmato da vari scienziati come Joliot-Curie, Pauling, Rotblat. Sarebbe stata questa campagna, con motivi pacifisti, ma anche attenti al destino ecologico futuro dell’umanità, che ha portato nel 1963 alla firma del trattato che “almeno” vietata le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera e negli oceani --- ce ne erano stati già oltre mille --- anche se la Francia continuò fino ai primi anni settanta le sue esplosioni di bombe atomiche nell’atmosfera, anche se da allora ci sono stati altri mille test nucleari nel sottosuolo. Se i “tests” non continuano con la stessa frequenza come negli anni settanta e ottanta è solo perché oggi è possibile controllare la “buona qualità” delle oltre 25.000 bombe atomiche esistenti nel mondo con processi che non richiedono esplosioni vistose.

Il trattato per il divieto parziale delle esplosioni nucleari del 1963 sembrò rispondere, pur con otto anni di ritardo, all’appello del manifesto Russell-Einstein, ma altre tensioni si stavano addensando. Proprio nel 1963 cominciava la sciagurata guerra del Vietnam; dapprima come intervento americano di sostegno al governo corrotto anticomunista del Vietnam del Sud, negli ultimi mesi dell’amministrazione Kennedy (assassinato nel novembre 1963), poi in forma sempre più pesante, dopo il “provvidenziale” incidente del Golfo del Tonchino, del 1 agosto 1964, che offrì al governo americano la scusa per un crescente invio di truppe nel Vietnam. Ebbe così inizio la lunga catena di morti militari e soprattutto civili nel lungo Apocalisse provocato da armi devastanti anche per l’ambiente: il napalm, la benzina gelificata che si infiltrava anche nei rifugi più riposti, i bombardamenti aerei su larga scala, i diserbanti lanciati a migliaia di tonnellate per distruggere la vegetazione in cui si rifugiavano i partigiani Vietcong e per distruggere i campi di riso della poverissima popolazione locale, per togliere qualsiasi rifornimento alimentare ai partigiani.

Diserbanti che restano persistenti nel terreno, fabbricati con materie prime grezze, non purificate e ancora contaminate di diossina, la prima volta che questa terribile sostanza cancerogena e tossica si affaccia nell’ambiente, suscitando l’indignazione di fasce sempre più vaste della popolazione anche nei paesi industriali, gettando le basi di quello che sarebbe stato chiamati “il sessantotto”; anzi è in questa serie di eventi che nasce la vera contestazione ecologica moderna, la breve primavera dell’ecologia (la prima grande mobilitazione americana e europea fu nella Giornata della Terra il 20 aprile 1970).

Ormai anziano (sarebbe morto tre anni dopo a 98 anni) è ancora Russell nel 1966 a scrivere sui ”Crimini di guerra nel Vietnam”, l’appello che diede l’avvio del Tribunale contro i crimini di guerra che porta ancora il suo nome.

E’ stato importante ricordare oggi, nel 2007, Betrand Russell perché i crimini, di guerra e di pace, contro gli esseri umani e contro la natura, continuano senza che nessuno più si indigni, al di là di generiche proteste o, per quanto riguarda l’ecologia, al di là di un diffuso chiacchiericcio. Si affaccerà, un giorno, un altro Russell ?