Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Sembrano
passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata
pubblicata l’enciclica “Populorum progressio”, scritta da Paolo VI. Tempestosi
e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco
conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte
della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba,
quando il confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica con le loro bombe termonucleari,
aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali
stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre
sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro
privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della
crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla
sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel
primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per
salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.