Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Sembrano
passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata
pubblicata l’enciclica “Populorum progressio”, scritta da Paolo VI. Tempestosi
e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco
conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte
della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba,
quando il confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica con le loro bombe termonucleari,
aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali
stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre
sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro
privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della
crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla
sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel
primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per
salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.
In
questa atmosfera il malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove
strade per lo sviluppo. “Progressio”, ben diverso dalla crescita delle merci e
del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.
L’enciclica sullo sviluppo dei popoli
diceva bene che "il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste
nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del
predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi
più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto
all'uomo che esse devono servire".
La “Populorum progressio” metteva in
discussione lo stesso diritto umano al "possesso" dei campi, dei
minerali, dell'acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola
persona o di un singolo paese, ma "di Dio", beni comuni come ripete
papa Francesco nella sua enciclica “Laudato si’” e continuamente.
L’enciclica “Populorum progressio” indica diritti
e doveri dei popoli della Terra divisi nelle due grandi “classi” dei ricchi e
dei poveri, ben riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente
ricchi, dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri, accumulano
grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i poveri che affollano i
paesi arretrati, ma anche quelli, spesso invisibili, che affollano le strade
delle dei paesi opulenti, all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe
sfavillanti.
La “Populorum progressio” fu letta poco
volentieri quando fu pubblicata e da allora è stata quasi dimenticata benché le
sue analisi dei grandi problemi mondiali siano rimaste attualissime.
I popoli a cui l’enciclica si rivolge sono,
allora come oggi, quelli che lottano
per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche,
dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della
civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono
con decisione “verso la meta di un pieno rigoglio”.
L’enciclica denuncia il malaugurato (dice proprio
così) sistema che considera il profitto come motore
essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema
dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto
assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. E condanna l’abuso
di un liberalismo che si manifesta come "imperialismo internazionale del
denaro".
In quegli anni
sessanta era vivace il dibattito sulla “esplosione” della popolazione, in rapida
crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un controllo della popolazione,
resa possibile dall’invenzione “della pillola”, aveva posto i cattolici di
fronte a contraddizioni. Paolo VI ricorda che spetta ai genitori di decidere,
con piena cognizione di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro “responsabilità
davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai figli che già hanno messo al
mondo, e davanti alla comunità alla quale appartengono”. Il tema della
“paternità responsabile” sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella
controversa enciclica “Humanae vitae” e, più recentemente, da papa Francesco
che ha detto che per essere buoni cattolici non è necessario essere come
conigli.
Il progresso dei
popoli è ostacolato anche dallo “scandalo intollerabile di ogni estenuante
corsa agli armamenti”, una corsa che si è aggravata in tutto il mezzo secolo
successivo con la diffusione di costosissime e sempre più devastanti armi
nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi, oltre che di armi convenzionali.
In mezzo secolo è cambiata la geografia
politica; un mondo capitalistico egoista e invecchiato deve fare i conti con
vivaci e affollati paesi emergenti, pieni di contraddizioni, e con una folla di
poverissimi.
I poveri di cui l’enciclica auspicava il
progresso, nel frattempo cresciuti di numero, sono quelli che oggi si
affacciano alle porte dell’Europa per sfuggire a miseria, guerre fratricide,
oppressione imperialista, per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e
all’ignoranza, quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di
concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere, magari dopo
avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei nostri campi. I pontefici
dicano pure quello che vogliono; le cose serie sono i propri interessi e
commerci.
Eppure è fra i poveri disperati e arrabbiati
che trova facile ascolto l’invito alla violenza e al terrorismo; noi crediamo
che la sicurezza dei nostri negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate,
con sistemi elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica
ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più “adatta da
abitare”, sarebbe la giustizia.
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