Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Quando acquistate una automobile fate certamente attenzione
al prezzo, alle caratteristiche, alla ricchezza di accessori, al consumo di
benzina o gasolio, al tasso di interesse che viene praticato per l’acquisto a
rate, eccetera. Non so se prestate altrettanta attenzione al fatto che l’uso di
questa macchina è inevitabilmente associato al peggioramento del clima,
quell’insieme di fenomeni che provocano estati torride e improvvisi acquazzoni
con conseguenti alluvioni, che provocano tempeste ai tropici e fusione dei
ghiacci delle montagne e delle zone polari.
Tutti eventi che sono associati alla modificazione della
composizione chimica dell’atmosfera; fra i gas responsabili di questo
scombussolamento degli equilibri ecologici della Terra una grande
responsabilità ha l’anidride carbonica CO2, la sostanza che si forma
come risultato finale di tutte le combustioni associate alla produzione di
elettricità o di acciaio o di plastica, eccetera, ma anche dalla combustione
degli alimenti “consumati” dagli esseri umani e dagli animali. Per restare alle
automobili, molti lettori avranno notato che, da alcuni anni, nella pubblicità
delle varie marche viene indicato il consumo di benzina per 100 chilometri, una
caratteristica importante perché la benzina costa dei soldi, ma viene indicata
anche, sia pure in caratteri piccolissimi e quasi illeggibili, la quantità di
CO2 che viene emessa per ogni chilometro, percorso.
Prendo a caso la pubblicità di una automobile a benzina: il
fabbricante promette che consuma 5,5 litri per 100 chilometri, ma avverte anche
che emetterà nell’atmosfera 130 grammi di CO2 per chilometro, cioè
circa 13 chili di CO2 per 100 chilometri: circa 2,5 chili di CO2
per ogni litro di benzina consumata. L’acquirente potrebbe pensare che questa
informazione sia inutile, ma si sbaglierebbe perché nel prezzo della benzina è
nascosta, insieme ad altre imposte, anche una imposta, un “costo ambientale”,
dovuto all’inquinamento che provoca un peggioramento del clima.
Ormai in molti paesi si sta diffondendo l’abitudine di
rendere i consumatori più consapevoli dell’effetto inquinante del loro
comportamento, nell’acquisto e nell’uso delle merci, tanto più che tale effetto
ricade su ciascun consumatore sotto forma di tasse per riparare o risarcire i
danni provocati dalle alluvioni o dalla perdita di raccolti ma causa della
siccità. Ogni anno a livello planetario vengono immessi nell’atmosfera circa 35
miliardi di tonnellate di CO2, in proporzione maggiore nei paesi in
cui sono maggiori la produzione e i consumi ed è più intenso il traffico,
minore nei paesi più poveri, che però sono ugualmente danneggiati da alluvioni
e siccità provocate dall’inquinamento dei paesi più ricchi: un nuovo volto
dell’ingiustizia planetaria.
Le emissioni di CO2 in Italia ammontano a circa
500 milioni di tonnellate all’anno, oltre ottomila chili all’anno per persona;
le maggiori emissioni si hanno nel trasporto e nel riscaldamento delle
famiglie, nella produzione dell’elettricità, nella lavorazione dei metalli, nei
trasporti industriali e commerciali. Ma ai fini del comportamento dei singoli
consumatori interessa piuttosto confrontare le emissioni di CO2
relative alla produzione e all’uso di singoli prodotti o servizi. Per esempio
un chilowattore di elettricità (quello consumato in un’ora da una signora che
stira la biancheria con un moderno ferro da stiro) “costa” circa mezzo chilo di
CO2; se l’elettricità è prodotta con fonti rinnovabili (Sole, vento,
residui agricoli) le emissioni di CO2 sono minori, ma comunque non
zero.
La crescente attenzione per i problemi ambientali e i
mutamenti climatici sta spingendo varie imprese private, ma anche associazioni
ambientaliste come WWF e Legambiente, o enti pubblici come il Ministero
dell’ambiente o alcune regioni, a diffondere delle informazioni sul “costo in
CO2” dei diversi processi e prodotti. I diversi modi di calcolo di
tale effetto inquinante (talvolta indicato come “impronta in carbonio” o
”carbon footprint”) forniscono talvolta risultati molto differenti e occorre
quindi esaminare con attenzione il vero significato dei numeri che spesso sono
usati come mezzo di pubblicità, per vantare la virtù ecologica di alcuni
fabbricanti rispetto ai concorrenti.
Alcune merci vengono già vendute come prodotte con “impronta
zero”: il trucco sta nel fatto che chi afferma di produrre a “zero CO2”
in realtà si propone di compensare le proprie inevitabili emissioni inquinanti
“pagando” perché vengano piantati un po’ di ettari di foresta in Ungheria o in
Costarica, con la scusa che tali alberi cresceranno assorbendo dall’atmosfera
una quantità di CO2 equivalente a quella emessa nel processo che ha
prodotto la merce in questione.
A parte la reale efficacia ecologica di questa specie di
nuovo commercio internazionale, i relativi costi sono poi pagati sempre
dall’ultimo acquirente. Davanti al rischio di nuove possibili frodi
merceologiche, mi permetto di raccomandare grande cautela nei consumatori e di
invitare gli insegnanti a parlare nelle scuole di queste nuove scale di valori
con cui dovremo confrontarci sempre più in futuro. Per evitare che il povero
consumatore finale finisca per pagare due volte, il danno climatico e la
speculazione di alcuni venditori spregiudicati.
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