La Gazzetta del Mezzogiorno, mercoledì 14
dicembre 2011
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Sono rimasto colpito ascoltando uno degli operai dei
cantieri navali di Sestri Ponente, in Liguria, di quelli che sono minacciati
dal licenziamento: il suo dolore non era soltanto per il mancato guadagno ma
anche per la ferita al suo “orgoglio”, ha usato proprio questa parola, di
operaio capace di fabbricare cose importanti, come le navi. “Orgoglio” del
proprio lavoro, non soltanto condanna biblica alla fatica, non soltanto fonte
di guadagno per mantenere una famiglia, ma fonte di soddisfazione,
constatazione che col lavoro si fa una cosa buona e utile e bella.
Un tema che ricorre talvolta nelle opere letterarie e anche
nei film, soprattutto americani; mi è venuto in mente il film “Pretty woman”
(1990), nel quale una prostituta, interpretata da Julia Roberts, fa innamorare
un grande finanziere di successo che si vanta di arricchirsi comprando imprese
in difficoltà e svendendole pezzi e licenziando i lavoratori. Ad un certo punto
la ragazza chiede al finanziere: “Ma tu non hai mai costruito niente ?”. La
risposta è “no”. Alla fine, per amore, il finanziere compra un cantiere navale
in crisi non per svenderlo, facendo soldi, ma per costruire anche lui ”molte
belle e grandi navi”.
Un mese o l’altro la crisi finirà: fin da ora non sarebbe
male chiedersi che cosa faremo quando questo frenetico circolare di soldi
finirà, quando i pochi arricchiti si troveranno a fare i conti con le falangi,
cresciute di numero, di poveri nei paesi ricchi e in quelli già oggi poveri.
Quando ci si renderà conto che il mondo va avanti non con i soldi, ma con il
ferro e le patate, cioè con la produzione di merci reali, capaci di soddisfare
bisogni umani. Quando la crisi sarà finita il mondo risulterà diverso da quello
degli anni precedenti, nel mondo, in Europa, in Italia. Vi sarà una diversa
distribuzione del benessere, alcuni paesi ricchi e potenti lo saranno di meno,
nuove popolazioni e domande si affacceranno all’orizzonte.
A questo punto che cosa potremo fare come italiani, come
cittadini del Mezzogiorno ? I posti di lavoro possono venire soltanto dalla
ripresa della produzione nelle fabbriche e nei campi, cioè in quei settori che
sono stati abbandonati perché non abbastanza remunerativi. Bisognerà
ricominciare a diffondere la cultura del fare, del fabbricare, cose diverse da
quelle che sono state prodotte finora. Negli anni delle crescita non solo
economica, ma anche civile del paese la colata di acciaio rovente era un segno
della capacità di piegare le risorse della natura ai bisogni delle città e
delle persone.
E’ una desolazione vedere che le fabbriche che sono state
l’orgoglio del paese sono ridotte a ruderi con gli spazi assaltati per
costruire edifici di cui non c’è bisogno, solo per soddisfare l’avidità della
speculazione finanziaria. La televisione, per settimane, ha fatto vedere i muri
e i serbatoi abbandonati della Falck di Sesto San Giovanni, storica acciaieria
oggetto di liti fra speculazioni e tangenti; andando in giro nel Mezzogiorno
quante torri di acciaio arrugginite e muri sgretolati di fabbriche abbandonate
sono il segno della delusione di un sogno di lavoro e di intrapresa.
Non so immaginare quali opere e prodotti saranno necessari
per la ripresa dalla crisi, non so se ancora automobili o motori solari, divani
o pomodori, opere di difesa del suolo o prefabbricati per dare una casa agli
immigrati e distruggere le baracche. Occorre probabilmente organizzare dei
pubblici servizi di programmazione e di previsione alla luce
dell’invecchiamento della popolazione italiana e dell’accoglimento del nuovo
sangue giovane che arriva dai deserti africani o dall’Europa povera.
Immigrazione che talvolta è portatrice di nuovo ingegno; si pensi alla
“abilità” degli immigrati indiani nel campo della zootecnia nella valle padana,
di quelli che nel Sud ci aiutano a raccogliere prodotti agricoli che,
altrimenti, resterebbero a marcire.
Al di là delle chiacchiere, infatti, possiamo vivere,
mangiare e muoverci soltanto grazie al lavoro di innumerevoli persone nelle
fabbriche, nei campi, nei negozi, sui treni. Ha fatto bene il presidente
Napolitano, qualche tempo fa, a ricordare che “spesso ci dimentichiamo che
esiste la classe operaia”. Nella scena finale del film ”Wall Street” (1987) di
Oliver Stone, l’operaio di una fabbrica di aeroplani che stava per essere
smantellata dalle speculazioni finanziarie a cui partecipava il figlio, giovane
rampante poi pentito, dice al figlio: “Costruisci, produci qualcosa, invece di
vivere sulla compravendita di altri”.
Nella nuova alba dell’economia italiana e mondiale le
occasioni di lavoro, e di “orgoglio”, potranno venire dalle iniziative per la
difesa dell’ambiente, dalla ricerca di nuove fonti di energia, dalla soluzione
di problemi come la lotta all’inquinamento, lo smaltimento dei rifiuti, la
bonifica di terre contaminate. Nuovi giganti, popolosi e intraprendenti e
abili, in Asia e in Africa si affacciano come produttori dei beni che affollano
gli scaffali dei negozi: possiamo guardare ad un futuro italiano basato
soltanto sui beni di lusso e sul turismo ?
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