La Gazzetta del Mezzogiorno,
martedì 1 luglio 2014
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Da
poco tempo il numero di autoveicoli circolanti nel mondo ha raggiunto il valore
di un miliardo, uno ogni sette abitanti della Terra. Tale numero comprende
circa 750 milioni di autoveicoli passeggeri e circa 250 milioni di autoveicoli
commerciali “leggeri”, definiti come quelli di peso inferiore a 3500 chili. A
questi vanno aggiunti circa 400 milioni di camion “pesanti”. A occhio e croce
si tratta di una massa di circa 3000 milioni di tonnellate di ferro, alluminio,
gomma, plastica, e poi rame, cromo, vetro, vernici, eccetera, che circolano
senza sosta nelle strade del mondo, che trasportano, lungo le strade e nelle
città, persone, e poi merci, alimenti, benzina, macchinari, carta, legname,
metalli, eccetera.
Un
ininterrotto flusso di materiali che rappresenta il sangue dell’economia, e che
ogni anno “beve” 2500 milioni di tonnellate di benzina e gasolio, che immette
nell’atmosfera 9 dei 30 miliardi di tonnellate complessivi di gas serra. In
Italia gli autoveicoli passeggeri sono circa 40 milioni, più di uno ogni due
abitanti, a cui si aggiungono altri quattro milioni di mezzi di trasporto
commerciali. Il traguardo “del miliardo” è stato raggiunto in poco più di un
secolo. Fino alla prima metà dell’Ottocento gli unici modi per spostare persone
e merci erano le proprie gambe e il cavallo. A cavallo viaggiavano veloci e
senza fatica le persone; i cavalli trascinavano le carrozze per i passeggeri
che volevano stare più comodi, e i carri con le merci.
Il
cavallo, fin dall’alba dell’umanità, è stato così importante come fonte di
energia che gli ingegneri, quando hanno voluto dare una misura della potenza
delle macchine, non hanno trovato di meglio che confrontare la loro potenza con
quella del cavallo e hanno chiamato l’unità di misura “cavallo-vapore”, HP
(Horse-Power), corrispondente a circa 0,75 chilowatt. Il cammino degli
autoveicoli è stato lento ed è cominciato in forma modesta negli ultimi anni
dell’Ottocento. Abbastanza curiosamente, l’avvento del “veicolo che si muove da
solo”, l’auto-mobile, appunto, è stato all’inizio osteggiato: era rumoroso,
spaventava i cavalli, emetteva fumi e sollevava polveri.
Per
arrivare all’attuale miliardo di autoveicoli sono state necessarie innumerevoli
innovazioni tecniche; tanto per cominciare è stato necessario asfaltare le
strade, perfezionare i processi di raffinazione del petrolio in modo da
ottenere dei carburanti adatti ai nuovi motori, modificare la tecnologia della
gomma naturale e di quella sintetica per realizzare le coperture delle ruote,
fino ai moderni pneumatici. Soprattutto è stato necessario rivoluzionare i
processi dell’industria meccanica. Nei primi anni del Novecento le varie parti
di ogni autoveicolo venivano messe insieme a mano.
L’automobile
sarebbe diventata, proprio cento anni fa, con l’inizio della “prima” sciagurata
guerra mondiale, un mezzo di trasporto militare essenziale; finita la
guerra, nel 1919, è diventata anche un simbolo di stato sociale, come prima
erano state le carrozze a cavalli. A soddisfare la nuova domanda di un mondo
desideroso di miglioramento pensò l’americano Henry Ford, il re delle
automobili, introducendo nella sua fabbrica la produzione “in serie” di veicoli
in grande quantità e a prezzo ragionevole. Gli autoveicoli dovevano essere
quanto più simili fra loro, “standardizzati”, e venivano messi insieme in una
“catena” di montaggio da operai affiancati, ciascuno dei quali doveva fare lo
stesso gesto, mentre i veicoli avanzavano su un nastro trasportatore, per
uscire alla fine pronti al viaggio. Una delle prime automobili prodotte in
grande serie negli Stati Uniti era il favoloso “modello T” che Ford si vantava
di poter offrire di qualsiasi colore purché fosse nero !
La
lunga strada avrebbe anche incontrato vari inconvenienti di natura ambientale.
Il primo è stato rappresentato dal fatto che i motori a scoppio, con ciclo Otto
a benzina o Diesel a gasolio, funzionano quasi esclusivamente bruciando un
derivato del petrolio; la loro “perfezione” viene pagata con l’inevitabile
produzione, durante la combustione dei carburanti, di gas che sono nocivi per
la salute, principalmente ossido di carbonio, poi ossidi di azoto, insieme a
polveri e idrocarburi cancerogeni. Molti tentativi di perfezionamento dei
carburanti per renderli più adatti ai motori capaci di muovere veicoli veloci e
grandi, sono stati accompagnati da crescenti inquinamenti dell’atmosfera,
soprattutto dell’aria delle città.
Il
piombo tetraetile, uno degli additivi per benzina di maggior ”successo”, usato
per mezzo secolo, ha avvelenato migliaia di persone con i composti del piombo
scaricati dai tubi di scappamento. Il “miglior” agente di attrito dei freni e
delle frizioni è stato per decenni a base di amianto; l’usura dell’amianto e
della gomma dei pneumatici sono stati fonti di polveri nocive nell’aria.
L’aumento della popolazione di autoveicoli si scontra anche con la limitata
capacità ricettiva delle strade e delle città, come si vede nelle città europee
col traffico congestionato. Senza contare che quando un autoveicolo non serve
più, la sua “rottamazione”, cioè lo smantellamento per recuperare una parte dei
materiali ancora utili, comporta rilevanti problemi di inquinamento.
Trappole
tecnologiche ben note ai paesi industriali ormai sazi, anche troppo, di
autoveicoli ma in cui cadranno i paesi emergenti, così assetati delle ”Insolent
chariots”, le invadenti carrette, come lo scrittore americano John Keats ha
definito le automobili.
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