La Gazzetta del Mezzogiorno, 30 settembre 2014
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Se
non fosse una cosa così seria verrebbe quasi da sorridere a pensare alle
migliaia di persone che ogni anno da venti anni si trascinano da un paese
all’altro a discutere senza risultati su come fermare i peggioramenti
climatici. Da Berlino, a Kyoto nel 1997, a Marrakesh, a New Dehli, a Nairobi,
alla fascinosa Bali, a Cancun, alla favolosa Doha, a Lima nel Peru, con un
supplemento a New York la settimana scorsa. Sono ministri, capi di governo,
funzionari ministeriali, esperti, ambientalisti e soprattutto lobbysti, quei
funzionari che le grandi industrie mandano in giro ad accertarsi che non venga presa
qualche decisione che danneggi i loro affari. Perché di soldi e di merci e di
affari, si tratta.
Il
peggioramento del clima, che da anni è sotto i nostri occhi, con piogge quando
dovrebbe esserci il sole, con grandinate quando dovrebbe piovere gentilmente,
con siccità nei suoli agricoli, in attesa che improvvise tempeste li riempiano
di acqua, con tranquilli fiumiciattoli che allagano intere città, è dovuto al
cambiamento della composizione chimica dell’atmosfera provocato dalle attività
“economiche” umane.
La
quantità dell’anidride carbonica CO2 presente nell’atmosfera è
aumentata, in cinquanta anni, da 2400 a 3000 miliardi di tonnellate, con un inesorabile
continuo aumento annuo di circa 15 miliardi di t; è questo gas, insieme ad
alcuni altri “gas serra”, che trattiene sulla superficie dei continenti e degli
oceani una crescente frazione della radiazione solare. Da un parte all’altra del
pianeta, terre e mari vengono così scaldati e si alterano i cicli naturali di
evaporazione e di condensazione dell’acqua e la circolazione del calore
attraverso gli oceani.
La
modificazione chimica dell’atmosfera è direttamente proporzionale ai consumi
delle fonti di energia fossili, petrolio, carbone e gas naturale, le quali a
loro volta servono per fabbricare e tenere in moto tutte le meraviglie della
società moderna: automobili e materie plastiche, aerei e telefoni cellulari, cemento
e condizionatori d’aria, perfino prodotti agricoli e zootecnici che forniscono
il cibo quotidiano. Una qualche attenuazione della crisi si potrebbe avere
piantando più alberi, i quali “portano via” un po’ della CO2 dell’atmosfera,
tanto che è stato inventato un meccanismo economico per cui chi immette CO2
nell’atmosfera può continuare ad inquinare pagando qualche paese
sottosviluppato perché pianti un po’ di alberi, una specie di commercio delle
indulgenze.
Purtroppo
la crisi climatica viene aggravata perché, in molti paesi poveri, su grandi superfici
le foreste vengono tagliate per recuperare terreni agricoli e pascoli e legname
e per aprire miniere, nella speranza di guadagnare qualche soldo e qualche
posto di lavoro. In tutte le conferenze internazionali sul clima i governanti
da venti anni ripetono le stesse cose; analizzano le cause, ormai notissime,
del riscaldamento globale, e dichiarano con fermezza che ciascun paese ha
intensione di limitare le emissioni di “gas serra” compatibilmente con le
necessità economiche, cioè mai.
Le
economie di tutti i paesi, di quelli di antica industrializzazione (del primo
mondo), di quelli del secondo mondo di recente industrializzazione e di quelli
del terzo mondo, poveri e poverissimi, vogliono più cibo, più acqua, più
energia, più merci, tutte cose che inevitabilmente comportano un aumento dell’inquinamento
ambientale e non solo di quello responsabile dei peggioramenti climatici.
I
governanti di alcuni paesi, come quelli europei, promettono di introdurre
innovazioni tecnologiche “verdi” per diminuire le emissioni di gas serra,
limitandole ai valori di qualche anno fa; ma anche così la quantità di gas
serra che si accumulano nell’atmosfera --- ed è la loro quantità totale che conta
ai fini del riscaldamento globale --- aumenta. Poco favorevoli a forti
limitazioni del consumo di combustibili sono i paesi come India e Cina e anche i
paesi poveri che chiedono ai paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa, forti
inquinatori, di dare per primi il buon esempio limitando le loro emissioni.
I
mutamenti climatici hanno un duplice effetto: costano soldi, pubblici e
privati, a causa dei danni apportati dalle frane e dalle alluvioni, dalla
distruzione dei raccolti, e provocano l’aumento dei prezzi delle merci. Ma sono
anche fonti di violenza e di dolori umani; milioni di persone, soprattutto dai
paesi più poveri, emigrano dalle terre rese sterili dalla siccità, o sommerse
dalle acque, ma trovano le porte sbarrate dall’egoismo dei paesi più ricchi
che, con i loro consumi enormi, sono stati la vera causa delle loro disgrazie
climatiche.
Il
problema è aggravato dal fatto che sta inesorabilmente aumentando il numero di
persone che aspirano alla crescita economica. Secondo recenti previsioni delle
Nazioni Unite la popolazione mondiale sta passando dagli attuali 7 a dieci o
più miliardi di persone nei prossimi decenni. Persone che sono consumatori
affamati di cibo e acqua e di merci essenziali, ma avidi anche di merci inutili
offerte da quella stesse imprese, più o meno verdi, che dichiarano a gran voce quanto
amano il pianeta. E’ inevitabile che la popolazione mondiale aumenti ancora per
molti anni, fonte di ulteriori conflitti per spazio e materie prime scarsi, di
avvelenamento e di mutamenti della stessa struttura chimica, fisica e biologica
del pianeta.
Potrà
andare avanti a lungo questa corsa di corridori ciechi, incapaci di vedere
verso quali crisi planetarie stanno andando ?
I soldi rendono cieche tutte le persone in questo mondo, ciechi davanti a quello che accade ogni giorno sopra le loro teste, incapaci di allontanarsi dal Dio denaro. Persone che non capiscono quanto i loro comportamenti ledano il posto che loro stessi abitano.
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