Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Il 1972, quarant’anni fa, fu il culmine di un vasto movimento di “contestazione ecologica” che era cominciato dieci anni prima: la denuncia dei danni dei pesticidi clorurati come il DDT; degli erbicidi usati nel Vietnam per distruggere, in quel lontano, paese asiatico, le foreste tropicali in cui si rifugiavano i partigiani antiamericani; della contaminazione radioattiva seguita agli esperimenti nucleari nell’atmosfera; dell’inquinamento dovuto alle fabbriche e alle perdite di petrolio nel mare; la comparsa delle alghe nei mari; la crescita della popolazione mondiale, avevano richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sui guasti arrecati all’ambiente naturale e umano.
Le fotografie della Terra scattate dagli astronauti da grande distanza avevano mostrato che il nostro pianeta è una piccola palla azzurra nell’immensità degli spazi interplanetari, l’unica casa che abbiamo da cui trarre cibo, acqua, minerali, energia e in cui immettere le scorie e i rifiuti delle nostre attività, proprio come avviene nelle navicelle spaziali. L’immagine della Terra come navicella spaziale, “Spaceship Earth”, ebbe forte effetto emotivo tanto che si moltiplicarono i dibattiti e gli incontri, a cominciare dagli Stati Uniti, intrecciati con le altre contestazioni degli studenti e degli operai degli stessi anni sessanta.
Nel 1970 il 22 aprile era stata indetta la prima “Giornata della Terra” e le Nazioni Unite decisero di organizzare nel 1972 una grande conferenza internazionale col titolo “L’ambiente umano” da tenersi a Stoccolma. Un titolo significativo che stava ad indicare e sollecitare una nuova attenzione per i rapporti fra le forze umane che modificano l’ambiente e la necessità di conservare l’ambiente indispensabile proprio per la vita umana. Il sottotitolo e il simbolo della Conferenza di Stoccolma furono: “Una sola Terra”, ispirata a quell’immagine di “Spaceship Earth” che ormai era diventata un simbolo del nostro destino di esseri umani. La conferenza di Stoccolma del maggio di 40 anni fa sollevò speranze di solidarietà internazionale nell’uso delle comuni, limitate, risorse naturali. Paolo VI inviò alla Conferenza di Stoccolma un messaggio che associava il dovere del rispetto per la natura con la domanda di giustizia e pace.
Quasi contemporaneamente apparvero alcuni libri, oggi dimenticati, che allora ebbero grande risonanza. Uno di questi fu “I limiti alla crescita” commissionato dal Club di Roma: se fossero continuati i ritmi di crescita della popolazione, allora di 3500 milioni (oggi è il doppio, settemila milioni di persone), se fosse continuato l’impoverimento delle riserve di risorse naturali e l’inquinamento dell’aria e delle acque, ne sarebbero venute malattie e fame e guerre che avrebbero portato ad un rallentamento della crescita della popolazione stessa e della produzione e del consumo delle merci. La soluzione, proponeva il libro, andava cercata in un rallentamento della crescita della produzione industriale e degli sprechi, in tecnologie meno inquinanti, nella solidarietà e più equa distribuzione dei beni fra ricchi e poveri, fra abitanti di diversi paesi, e questo avrebbe portato anche ad un rallentamento della crescita della popolazione mondiale senza rallentarne lo sviluppo umano e sociale.
Un secondo libro sullo stesso tema, intitolato ”Il cerchio da chiudere”, scritto dal biologo americano Barry Commoner, sosteneva che una crisi ambientale derivava non solo e non tanto dall’aumento della popolazione terrestre quanto dalla quantità e dalla qualità delle merci prodotte. Concimi, fonti di energia, materie plastiche, detersivi, eccetera sono inquinanti in diversa maniera, a seconda di come sono fatte, della materie e dei processi impiegati. La natura “funziona” con cicli chiusi (il “cerchio” del titolo) e ricicla le proprie scorie; le attività umane funzionano con cicli aperti e dispersivi e inquinanti; la salvezza va cercata in nuovi processi e prodotti: si potrebbe dire in una “merceologia” rispettosa dell’ambiente basata su materie rinnovabili, sul riciclo delle scorie, proprio quello che si sta ripetendo, invano, da tanti decenni.
Un’altra conferenza delle Nazioni Unite, nel maggio di quello stesso 1972, aveva riconosciuto il legame fra diritto all’uso delle loro risorse naturali e sviluppo economico dei paesi arretrati.. Sono passati quarant’anni di crescenti chiacchiere e dichiarazioni e conferenze e di crescente violenza contro la natura, di continui conflitti per la conquista delle materie prime, di squilibri economici e demografici; la crescente popolazione dei parsi poveri chiede lavoro e giustizia ai paesi ricchi di soldi e poveri di speranza e di coraggio di cambiare le regole economiche che hanno come unico idolo la crescita dei consumi e degli sprechi di merci e che sono responsabili delle continue crisi ambientali.
Inascoltata è rimasto l’avvertimento che “non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare” (Populorum progressio, 1967). Quanti anni abbiamo perduto, eppure saremmo ancora in tempo a rendere la Terra “più umana da abitare”.
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