lunedì 9 aprile 2012

Ambiente e lavoro

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 10 aprile 2012


Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La marcia dei lavoratori dell’acciaieria di Taranto, il 21 marzo 2012, in difesa del posto di lavoro “contro” gli “ambientalisti” merita qualche considerazione più generale. Nella società industriale sono spesso contrapposti differenti diritti. La “contestazione” chiede il rispetto di alcuni diritti fondamentali, da quelli di un lavoro decente e equamente retribuito nelle fabbriche e nei campi, a quelli “ecologici”, che i fumi e i rifiuti delle attività produttive non avvelenino la popolazione. Gli imprenditori, da parte loro, hanno il ”diritto” di trarre, dal denaro investito per produrre merci mediante il lavoro umano, un profitto necessario per poter investire in altre fabbriche che producono altre merci mediante altro lavoro umano.

Se il problema fosse così impostato non ci dovrebbero essere conflitti: le merci sono necessarie per soddisfare fabbisogni umani (di cibo, di vestiario, di trasporto, di abitazione, eccetera) che le donne e gli uomini ottengono “vendendo”, in cambio di un “salario”, il proprio lavoro. In realtà tutta la storia dell’industrializzazione moderna ha visto, in generale, la ricerca, da parte degli imprenditori, di alti profitti sia per una loro crescente avidità, sia anche solo per sanare errori del passato, a spese degli altri due diritti fondamentali: la salute dei lavoratori e la salute dell’ambiente, che vuol poi dire la salute delle famiglie degli stessi lavoratori, al di fuori della fabbrica, e dell’intera comunità. Il rispetto di tali diritti richiede azioni che inevitabilmente comportano minori profitti per gli imprenditori: maggiori costi per i filtri dei fumi, il trattamento dei rifiuti,il rispetto del paesaggio, la sicurezza sul posto di lavoro, eccetera.

Poiché a nessun piace guadagnare meno, la “contestazione” è stata vista come il fumo negli occhi da intere generazioni di imprenditori che hanno reagito chiedendo ai “governi” di evitare o attenuare le leggi che impongono orari di lavoro più corti, maggiore sicurezza, filtri e depuratori, eccetera, E molte volte, quando un “governo” si è fatto interprete della domanda di difesa della salute e dell’ambiente, gli imprenditori hanno avvertito i lavoratori che, se fossero passate queste norme più rigorose, la fabbrica avrebbe dovuto chiudere e loro avrebbero perso il lavoro. Era facile immaginare che i lavoratori avrebbero reagito anteponendo, giustamente dal loro punto di vista, il posto di lavoro, cioè un salario indispensabile per le famiglie, alle precauzioni per la difesa della salute o dei fiumi o del paesaggio. Al disoccupato è difficile spiegare che ha perso il posto di lavoro in seguito ad interventi presi nell’interesse suo, della sua famiglia, dei figli, di un imprecisato “bene comune”. Una contrapposizione lavoro/ambiente che costituisce un “ricatto occupazionale”.

Non so se “i padroni” del siderurgico hanno organizzato la marcia dei lavoratori a Taranto; credo soltanto che la grande sfida, anche per uscire dalla crisi europea attuale, consista proprio nel cercare di conciliare dei diritti oggi contrapposti; non basta promuovere “attività verdi”, che spesso ripropongono le stesse contrapposizioni profitto/lavoro/ambiente. Un governo “pro bono publico”, nell’interesse della comunità, ha (dovrebbe avere) la possibilità di assicurare il lavoro nella produzione di beni e merci e servizi utili garantendo nello stesso tempo salari equi e condizioni di salute e ambiente decenti per i lavoratori e le loro famiglie. Ci sono tutte le condizioni e le conoscenze tecniche, scientifiche e biologiche per produrre merci e energia senza avvelenare le persone e l’ambiente, senza distruggere beni collettivi. Se anche i governanti non volessero affrontare questa sfida nel nome del bene pubblico, del cristianesimo, del rispetto per il prossimo, farebbero bene a impegnarsi per tali obiettivi, dal momento che i conflitti, l’insofferenza dei lavoratori, la protesta dell’opinione pubblica fanno anche diminuire gli affari, i profitti, i commerci, quella che si chiama la “crescita” economica, la stabilità sociale.

L’occupazione non si garantisce accettando che tonnellate di polveri entrino ogni anno nei polmoni degli operai della cokeria e degli altiforni dell’acciaieria di Taranto e piovano sui terrazzi e nei polmoni degli abitanti di Tamburi, accettando la deturpazione delle cave ridotte a discariche, con lo sfruttamento degli immigrati nei disumani lavori nei campi, con le costruzioni di palazzoni sulla riva di cave abbandonate, con parcheggi scavati nelle falde idriche sotterranee, eccetera. Devo riconoscere che alcune forme di contestazione “ambientalista” sono ispirate a paure immaginarie, ma anche queste sono motivate dal fatto che tante persone “non si fidano” e ritengono, talvolta giustamente, che le leggi e i governi non operano per difenderle dalle diossine o dalle frane, ma per non disturbare gli interessi e gli affari del potere economico. Quando si perde la fiducia nei governi eletti dal popolo si perdono anche le virtù della democrazia.



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