Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Cadono, in questo autunno 2011, sessanta anni dall’alluvione del Polesine, 45 anni dall’alluvione di Firenze, Venezia, Trento. Ne sono passate di alluvioni da allora, fino a quelle di ieri l’altro in Lunigiana e nelle Cinque Terre, di ieri a Genova, di oggi ad Alessandria e nella Valle Padana. Ad ogni alluvione hanno fatto seguito due fenomeni contrastanti: il primo è un movimento di solidarietà spontanea; un paese, sotto tanti aspetti egoista, davanti alle sventure altrui e della collettività, è capace di regalare, gratis, ore di lavoro e fatica per aiutare a sgombrare dal fango e pulire le case e le botteghe e i campi, anche per salvare libri e archivi, accanto a chi ha perso beni materiali, talvolta la vita dei familiari. In questi momenti, senza che nessuno lo chieda o lo imponga, emerge la parte migliore del popolo italiano.
Nello stesso tempo riemerge ogni volta la parte peggiore del paese, quella di governanti che, nel corso di sessanta anni, non sono stati capaci di prendere iniziative per prevenire i disastri, le calamità nient’affatto ”naturali”. Dopo ciascuna delle centinaia di tragedie che hanno colpito l’Italia, unendo in un tragico destino le regioni settentrionali, quelle centrali, quelle meridionali e le isole, gli studiosi hanno scritto migliaia di pagine in cui sono descritte le cause del dissesto idrogeologico e sono stati suggeriti rimedi. Sono stati fatti accurati elenchi delle migliaia di comuni italiani a rischio di eventi franosi e di allagamenti, sono state emanate leggi in genere non rispettate.
Ci sono delle forze perverse che muovono un popolo, che pure in certi momenti comprende persone generose e disposte ad aiutare gli altri, ad agire così tenacemente in modo da creare le basi per la distruzione di se stesso. La aspirazione, legittima, al benessere e alla comodità spinge troppo spesso ad agire, a fini di profitto e speculazione, contro le leggi della natura e quelle dello Stato. Il mestiere della natura è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti, così come il “mestiere” dell’acqua delle piogge e della fusione delle nevi consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità a seconda di quello che incontra sul terreno.
La natura ha predisposto sul terreno la vegetazione che frena la forza erosiva delle acque; le gocce di acqua che cadono sulle foglie e sui rami perdono una parte della propria energia e scivolano dolcemente sul suolo; nello stesso tempo le radici e le piante rallentano le acque nella loro discesa verso valle. I prodotti dell’erosione si depositano lungo torrenti e fiumi e disegnano le coste sabbiose. La natura ha predisposto intorno a torrenti e fiumi delle zone di espansione delle acque di piena. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città, la vegetazione spontanea è stata distrutta e sono state interrotte le vie naturali predisposte dalla natura per assicurare alle acque la loro regolare discesa. Così le acque si muovono veloci e senza freni e si espandono spazzando via qualsiasi ostacolo, dilagano e distruggono e uccidono. I guasti vengono dal fatto che troppe persone si comportano sul territorio come se le leggi della natura non esistessero, costruendo strade e case, ponti e fabbriche e campi dove gli torna comodo.
Dovrebbe essere cura dello Stato vietare, con piani “regolatori”, cioè adatti a regolare le scelte economiche sulla base delle leggi della natura, la costruzione di opere che intralciano il moto delle acque, assicurare la manutenzione e la cura, direi “affettuosa”, del territorio e delle valli per evitare le frane, per togliere ostacoli lungo fossi, torrenti, fiumi. Se dipendesse da me disporrei la proiezione nelle scuole e nei consigli comunali, provinciali e nel Parlamento (con presenza obbligatoria) delle immagini che mostrano come le acque aumentano di velocità e di forza erosiva se corrono su un terreno cementificato e privo di vegetazione, tagliato da strade e ponti che ne frenano il cammino, degli alvei ridotti a stretti canali o nascosti nel sottosuolo per aumentare di qualche metro quadrato le aree edificabili: le scene che stiamo vedendo in questi giorni di alluvione in Liguria, più eloquenti di un trattato di ecologia.
Eppure proprio l’ecologia mostra che è possibile costruire edifici e strade e ponti e luoghi di vacanza nel rispetto delle leggi della natura. Forse le opere costeranno di più, ingordi appetiti di soldi dovranno essere frenati, avidità elettorali dovranno essere scontentate, ma miliardi di euro, ogni anno dissipati per sanare i maledetti “stati di calamità”, potranno essere risparmiati. Ci vorrebbe, mi direte, un “senso” di quello Stato che le filosofie correnti dicono così nocivo per gli affari. Facciamone pure a meno, ma smettiamo allora i piagnistei sui morti che sono stati uccisi da una comunità senza regole.
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