domenica 16 gennaio 2011

carestie

La Gazzetta del Mezzogiorno, domenica 16 gennaio 2011

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Io amo le cipolle; non so se è vero che hanno eccezionali proprietà curative, se tengono lontano il malocchio e poco mi importa se fanno piangere quando si sbucciano; mi piacciono e basta. Per questo potete immaginare che, come merceologo, seguo con attenzione il fatto che il prezzo delle cipolle sia aumentato di tre volte in pochi mesi in India, il principale consumatore di tali tuberi, e che questo aumento di prezzo si inserisca in un generale aumento delle tensioni internazionali a proposito di crisi alimentari. Rincari di cipolle in India, rincari di cereali in Algeria e Tunisia, tensioni nei mercati europei, sono tutti degnali di una crisi di cui poco si parla, ma che può innescare guerre fra paesi concorrenti e movimenti interni anche rivoluzionari.

Le cipolle sono note, nel Mediterraneo e in Asia, da tempi antichissimi e alcune proprietà curative sono citate nei testi medici indiani di mille anni prima di Cristo. La produzione mondiale di cipolle si aggira su circa 50 milioni di tonnellate all’anno, delle quali oltre 20 sono prodotte dalla solita Cina, sempre in testa alle statistiche merceologiche, seguita da India con circa 10 milioni di tonnellate annue, e da Australia, Stati Uniti (dove esiste una potente associazione nazionale di produttori di cipolle), Pakistan (anzi alle tensioni fra India e Pakistan si deve l’aumento improvviso dei prezzi delle cipolle in India), Turchia, Iran e altri. E dire che avevamo anche in Italia una produzione di cipolle, fra cui rinomate quelle di Acquaviva delle Fonti, e che ormai siamo in coda fra i paesi produttori di cipolle, che scopriamo essere anche loro una merce strategica.

L’aumento del prezzo delle cipolle in India è soltanto un volto di una crisi molto più vasta che vede altri focolai di tensione in Tunisia e Algeria, dove sono aumentati i prezzi del pane e dell’olio, e in altri paesi che non ricevono attenzione da parte dei mezzi di comunicazione ma che devono affrontare anch’essi continui e inesorabili aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari. Tali aumenti derivano dalla coincidenza di vari fenomeni apparentemente non collegati, come l’aumento della popolazione, l’aumento della richiesta di alimenti in seguito ai miglioramenti economici di alcune fasce di popolazione, e la graduale diminuzione o insufficiente aumento della produzione agricola in singoli paesi o nell’intero pianeta.

Considerazioni economiche ed ecologiche mostrano che un aumento della popolazione e del benessere porta ad un eccessivo sfruttamento delle terre agricole che a sua volta fa rallentare la disponibilità e aumentare i prezzi degli alimenti. Le carestie alimentari si sono verificate continuamente nella storia umana, dai tempi dei Faraoni, ai tempi biblici, e poi sempre più spesso nel Medioevo e poi in tempi recenti. La famosa carestia in Irlanda fu dovuta all’attacco di parassiti alle coltivazioni di patate e all’esportazione delle poche patate rimaste verso l’Inghilterra che poteva pagarle a prezzi elevati, inaccettabili per la popolazione povera irlandese.

L’aumento di prezzi dei cereali nel Nord Africa è provocato anch’esso dalla crescente richiesta di cereali da parte dei paesi con più alto livello economico e anche in parte dall’uso di cereali come materie prime per la produzione di carburanti alternativi alla benzina, soprattutto alcol etilico prodotto dal mais; diminuisce così, la disponibilità di cereali alimentari per i paesi poveri che sono poi quelli in cui aumenta di più la popolazione. Facendo i conti si vede che, in assoluto, la disponibilità di cereali e di altri alimenti sarebbe sufficiente per sfamare a prezzi accettabili la popolazione terrestre esistente, e che le carestie locali derivano dalla ingiusta e ineguale distribuzione delle derrate alimentari essenziali. Alcuni hanno molti alimenti, alcuni addirittura troppi e devono fare i conti con un eccessivo consumo, e altri, la maggior parte, non ha alimenti sufficienti. Circa un quarto dei cereali prodotti nel mondo sono destinati all’alimentazione del bestiame che fornisce carne e latte e uova, cioè proteine pregiate, ai paesi ricchi del mondo

Come si vede il problema è, nello stesso tempo, merceologico e morale. Entro certi limiti è possibile aumentare la produzione agricola dei vari paesi; con cautela, però. Ad esempio l’aumento dell’impiego di fertilizzanti fa aumentare un poco le rese agricole, ma nello stesso tempo altera il ricambio delle sostanze nutritive dei terreni e alla fine la fertilità diminuisce. Le proposte di coltivare a piante alimentari le terre liberate dalle foreste, producono disastri.; da una parte i terreni messi a nuova coltura spesso si rivelano esposti ad erosione e dopo poco perdono la fertilità originale; in secondo luogo vengono distrutte le foreste che hanno un ruolo importante perché rallentano gli effetti negativi del riscaldamento planetario in atto.

Le proposte di aumentare le rese agricole usando piante geneticamente modificate, i cosiddetti OGM, hanno l’effetto che tale aumento richiede un maggiore uso di fertilizzanti con le conseguenze già dette, e inoltre le conseguenze delle modificazioni genetiche sulla vita vegetale, animale, e alla fine umana sono ancora poco chiare. Si vede continuamente che basta un cambiamento nella qualità dei mangimi alimentari, per esempio l’uso di farine contenenti scarti di origine animale, molto meno costose di quelle di origine vegetale, può diffondere malattie impreviste. Le carestie possono anche derivare dal fatto che le popolazioni povere producono troppo poco gli alimenti locali per mancanza di acqua, di conoscenze e, soprattutto, di tecniche di conservazione che pure sono note, ma costose e restano inaccessibili ai paesi arretrati.

Ci sono poi problemi morali: molte terre che erano sufficienti ad una produzione alimentare di sussistenza per le popolazioni locali, per i contadini che sapevano come ottenere cibo sufficienti per le proprie comunità, sono state acquistate per grandi allevamenti di animali o per coltivazioni intensive di piante economiche, vantaggiose solo per i capitali dei paesi industriali, investiti in nuove forme quasi-coloniali di latifondo, e le popolazioni locali, prive degli alimenti tradizionali, non sono in grado di pagare gli alimenti di importazione. Ma, si sa, le considerazioni morali non abitano nei trattati di economia e di finanza. Si pensi infine alla stessa situazione italiana in cui molte colture sono state abbandonate davanti alla concorrenza straniera, senza peraltro far niente per modernizzare le produzioni e la distribuzione; ricordo quando gli imprenditori pugliesi producevano mandorle e altri prodotti che esportavano in tutto il mondo e che ora dobbiamo importare.

Avremmo potuto fare meglio nei rapporti internazionali, a livello europeo, avremmo potuto potenziare la cultura e l’economia agricola, senza rincorrere l’illusione di attività economicamente attraenti (penso ai ruderi di fabbriche abbandonate dopo una breve illusione di benessere locale) ? Penso all’abbandono delle terre coltivabili coperte con distese di pannelli solari nel nome di un breve guadagno immediato che cesserà quando finiranno gli incentivi; così resteremo senza le utili energie rinnovabili e con terre desolate. Soprattutto nel Mezzogiorno, invece di piangerci addosso per il crescente divario col Nord faremmo forse bene a pensare come utilizzare le terre disponibili per produzioni agricole che creano ricchezza per noi perché sono utili ad altri, in Italia, in Europa e nel mondo. Tutto il potere alla terra.

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