sabato 13 novembre 2010

Petrolio nel mare: cronaca di un'estate

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 15 giugno 2010

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Nel 1953 il regista francese Henri-Georges Clouzot diresse un film intitolato: “Vite vendute”, interpretato da Yves Montand, Folco Lulli e altri famosi attori: la storia drammatica descrive il viaggio di un gruppo di quattro camionisti disperati che trasportano, per pochi soldi (il titolo originale era ”Il salario della paura”) attraverso deserti privi di strade, dei fusti pieni del potente e pericoloso esplosivo nitroglicerina destinato ad un pozzo petrolifero in fiamme. L’esplosione della nitroglicerina alla bocca del pozzo sottrae ossigeno e fa cessare l’incendio (ma non la fuoriuscita del petrolio). Il camion e i guidatori superano terribili difficoltà, alcuni muoiono, e finalmente uno di loro riesce a raggiungere il pozzo in fiamme e a guadagnare “il salario” promesso. Mi è tornato in mente leggendo le cronache dell’incendio del pozzo petrolifero nel Golfo del Messico e osservando le immagini della continua fuoriuscita di petrolio e gas dal fondo del mare.

Quando in fretta e furia facciamo “il pieno” al distributore di benzina o gasolio, quando nervosamente aspettiamo il rifornimento del gasolio per la caldaia domestica, quando buttiamo via la bottiglia di plastica, non pensiamo che dietro quei liquidi, quella plastica, ci sono innumerevoli storie umane impegnate pericolosamente nella perforazione dei pozzi e nell’estrazione del petrolio nei deserti, nelle paludi, sul fondo del mare, salari pagati talvolta con la vita quando si verificano incidenti, esplosioni o incendi.

Ci stiamo commovendo per i pellicani della Louisiana con le ali imbrattate dal petrolio uscito, a partire dal 20 aprile 2010, dal pozzo della società British Petroleum BP, ma non si pensa che simili incendi, simili perdite di petrolio, si sono verificate e si verificano continuamente, anche se non nelle dimensioni che abbiamo oggi davanti agli occhi. Durante le tre guerre del Golfo Persico si ebbero incendi dei pozzi a terra e nel mare, con danni ecologici, ma soprattutto con la perdita di vite di lavoratori. La chiusura dei pozzi e l’estinzione degli incendi con esplosivi, la tecnica tradizionale, sono operazioni estremamente pericolose; gli operai coperti di amianto devono avvicinarsi all’incendio, esposti ad altissime temperature, e devono calare la nitroglicerina alla bocca del pozzo e regolare l’esplosione. Ci sono nel mondo alcune società impegnate in queste operazioni: due favolosi specialisti di spegnimento di pozzi petroliferi in fiamme come Myron Kinley (1898.1978) e Paul Adair (1915-2004), Adair “il rosso” per il colore dei suoi capelli, hanno ispirato film drammatici come “Uomini d’amianto contro l’inferno”, con John Wayne che interpreta Adair.

Mentre leggete (15 giugno 2010) sono scadute le 48 ore che il governo americano ha messo a disposizione della BP per chiudere definitivamente il pozzo sottomarino (La chiusura definitiva avvenne il 2 agosto 2010). Nei due lunghi mesi trascorsi dall’incidente alla piattaforma nel Golfo del Messico alla BP sono arrivate settemila proposte di interventi, alcune tentate senza successo, altre di pura fantasia, altre tentate con qualche limitato successo. L’incendio iniziale è cessato subito dopo il crollo della piattaforma superficiale: adesso si tratta di intercettare il flusso di petrolio e di gas che esce a 1500 metri di profondità, in modo che non si perda nel mare e che possa essere avviato ad una nave cisterna, e di fermare definitivamente la fuoriuscita del petrolio, impresa tutt’altro che facile perché il petrolio esce da varie fratture delle rocce del fondo marino.

Qualcuno ha proposto di far crollare e sprofondare le rocce circostanti l’uscita del petrolio mediante esplosioni che chiudano le fessure di uscita. Si è visto che non è possibile usare cariche di nitroglicerina e allora è stata presa in considerazione l’esplosione, alla bocca del pozzo, di una delle “superbombe” (non atomiche) con esplosivi convenzionali, che esistono negli arsenali degli Stati Uniti. Si tratta di una specie di siluro del peso di 10 tonnellate, contenente una miscela di tritolo e di ciclotrimetilen-trinitrammina, circondata da bombole di ossigeno liquido e contenitori di polvere di alluminio, con una potenza esplosiva equivalente a 40 tonnellate di tritolo.

Anche alle bombe atomiche qualcuno ha pensato, ricordando che nell’Unione Sovietica alcune bombe atomiche sono state effettivamente impiegate per spegnere incendi superficiali e fuoriuscite di petrolio sottomarine, ma mai alla profondità della fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico; la proposta è stata (finora) scartata per evitare complicazioni politiche nel lungo dibattito verso il divieto totale delle armi nucleari e anche per le difficilmente prevedibili conseguenze ecologiche di tali esplosioni sotterranee: ci sarebbe il rischio di passare da una contaminazione dei mari da petrolio ad una contaminazione radioattiva dei mari.

Questa frenesia di proposte da una idea della gravità della situazione che abbiamo di fronte: James Cameron, il registra di film spettacolari come “The Abyss” (1989), “Titanic” (1997) e “Avatar” (2009), tutti con riprese sottomarine, ha messo a disposizione del governo americano le sue esperienze con speciali veicoli sommergibili. Il russo Anatoly Sagalevich ha suggerito l’uso dei veicoli sommergibili abitati impiegati per i sopralluoghi alle navi affondate Titanic e Bismarck e al sottomarino russo Kursk. La storia che stiamo vivendo ha una sua morale: l’esaurimento dei pozzi petroliferi più comodi e abbondanti spinge a cercare di strappare il petrolio dalle viscere della Terra con operazioni ecologicamente sempre più violente: perforazioni di pozzi a grande profondità nei mari e sulla terraferma, in ambienti ostili come foreste e paludi, estrazione del petrolio da sabbie bituminose con effetti inquinanti. Pensiamo a quello che succederebbe se un incidente simile a quello americano si verificasse nel Mediterraneo o, peggio, nell’Adriatico, un piccolo mare praticamente chiuso.

Che sia il caso di interrogarci su quanta e quale energia occorre all’attuale e futura società planetaria ? Che sia il caso di approfondire le conoscenze dei rapporti fra attività umane e il meraviglioso e ancora misterioso “corpo” del mare ?

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